DI MAIO E IL FUTURO DELLA POLITICA

Perché Luigi Di Maio ha lasciato il M5s? Perché il partito è in dissolvimento e i topi abbandonano per primi la nave che affonda. Ma questa sintesi non esaurisce il fenomeno. Certo, la nave affonda: ma perché? Le domande si affollano.
Forse Di Maio è partito da una constatazione generale. Il Movimento non ha radicamento territoriale e ciò che gli ha sempre dato vita è stata l’immagine proiettata dai media. Se dunque i media coralmente lo descrivono come un organismo in dissolvimento, quand’anche non lo fosse, lo diverrebbe. In Borsa le chiamano self-fulfilling prophecies, “profezie che si autorealizzano”.
Naturalmente, chi lascia un partito si sente in dovere di nascondere i propri interessi personali e di giustificarsi con nobili motivi. Spesso comincia con l’accusare il gruppo di provenienza di avere tradito gli ideali. Quando sono usciti dal Partito Democratico, è stato come se i Liberi e Uguali gli dicessero: “Un tempo eravamo tutti comunisti, ora voi vi siete imborghesiti, e non siete più comunisti. Noi lo siamo ancora”. Ma poiché non era più di moda dichiararlo, non sono passati al Partito Comunista di Marco Rizzo. Hanno creato un ennesimo, insignificante partitino. Operazione spesso fallimentare.
Nel caso della scissione di Di Maio, il messaggio è opposto: “Sono stato sempre con voi ma con l’età, l’esperienza e la riflessione, sono maturato. Il Movimento 5 Stelle ha imboccato molte strade sbagliate ed io ne esco per fondare un partito di buon senso, forse centrista, certo governativo”. E in questa diagnosi c’è molto di vero. Nell’ultimo anno Di Maio ha dimostrato un fiuto eccezionale.
Mario Draghi ha dovuto accettarlo nel governo – nientemeno come Ministro degli Esteri – pur sapendo che si trattava di un ragazzotto senza nessuna competenza: né politica, né storica, né giuridica, né diplomatica. Un Ministro degli Esteri incapace di esprimersi in inglese. Per non dire che qualche difficoltà aveva dimostrato di averla anche con l’italiano. Sembravano le premesse per un immane disastro ma la realtà ci ha ricordato che non bisogna confondere competenza e intelligenza. A Di Maio la seconda non è mancata.
Nominato ministro, per mesi e mesi non ha aperto bocca, fino a farsi dimenticare. E a far dimenticare le sue immense gaffe. Per molto tempo si è limitato a leggere foglietti: mai un’improvvisazione, mai un discorso a braccio, mai un’iniziativa. Da Ministro degli Esteri non ha sbagliato una mossa, anche perché non ne ha fatto alcuna, lasciando l’incombenza della rappresentanza italiana a Draghi. Nel frattempo ha studiato (se non sui libri certo nel gran libro della realtà) fino a divenire un adulto e a rendersi conto che il Movimento era destinato a scoppiare come un palloncino. Dunque ha cercato un altro approdo.
Per arrivarci doveva avere dei proseliti ed ha pensato che poteva trovarli fra coloro che non ne potevano più delle mattane degli “scappati di casa”. In secondo luogo sapeva che li avrebbe trovati accogliendo coloro che, essendo già alla seconda legislatura, non sarebbero stati candidati ad una terza. Così come ha rinnegato la stupidaggine dell’“uno vale uno”, ha rinnegato anche lo spreco di estromettere dalla politica proprio chi aveva cominciato a capirla. Ed anche questo calcolo si è rivelato esatto.
Infine lo scontro con Giuseppe Conte. Questi non ha capito nulla di tutto ciò che ha capito Di Maio. Per giunta ha troppo spesso dimenticato che i “grillini” sono disposti a tutto, salvo le elezioni anticipate e la perdita della “cadrega” e della pensione. Sicché ogni posizione antigovernativa ha finito con lo sgonfiarsi dinanzi alla minaccia di andare alle urne prematuramente. E allora perché prendere pose gladiatorie? Per poi rimangiarsele, come è accaduto proprio avant’ieri, sulla questione delle armi all’Ucraina?
Forse veramente Conte non capisce nulla di politica. Il giudizio impietoso che Beppe Grillo ha dato di lui non era tanto infondato. L’Avvocato del Popolo della politica ha capito soltanto la duttilità e la mancanza di scrupoli; ma ha dimenticato che se sono troppo visibili divengono indecenti. Proprio per questo Machiavelli sosteneva che il Principe doveva mostrare di avere tutte le virtù che non aveva.
Per Conte come per Di Maio rimane il problema dei programmi. Conte raschia il barile del Movimento e non si rende conto che è veramente vuoto. Di Maio ha capito di dover progettare un “partito moderato”, cioè di centro, ma il guaio è che prima di lui ci hanno pensato in così tanti che quel centro è ora affollatissimo di partiti più o meno personali. Questo è un momento in cui un po’ tutti non sanno che fine faranno.
Si tratta di una crisi generale. I partiti non hanno più programmi. Il comunismo ha mostrato di che cosa è capace e non se ne parla più. La socialdemocrazia e il Welfare State hanno dato tutto ciò che potevano dare, e la gente chiede sempre di più. Oggi in televisione annunciavano che erano morti sul lavoro quattro operai e riferivano che i sindacati chiedono che lo Stato si attivi per far cessare questo scandalo. Senza rendersi conto che impedire del tutto gli infortuni non è possibile. Se lo fosse, le Imprese di Assicurazioni avrebbero già chiuso. Ma i sindacati “chiedono” e le televisioni, compuntamente, riferiscono. Questa è la politica attuale. La mancanza di idee di Di Maio non è una colpa sua ma di tutti. Tutti credono che la politica consista nel chiedere al governo il rimedio di ogni male: il Covid, la guerra, la siccità, gli incidenti stradali, la disoccupazione, la povertà, e perfino i muliericidi. La democrazia è in crisi e non sappiamo con che sostituirla. Possiamo soltanto provare a peggiorarla. E infatti parecchi se ne stanno già occupando.
giannipardo1@gmail.com

DI MAIO E IL FUTURO DELLA POLITICAultima modifica: 2022-06-24T14:03:22+02:00da gianni.pardo
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