RICORDI DI TEMPI LONTANI

Ho cominciato a frequentare l’università – credo – nel 1951 o nel 1952. Era rettore Orazio Condorelli, professore di filosofia del diritto, senatore monarchico e figura indimenticabile. Alto, panciuto, immagine attardata dell’intellettuale ottocentesco, usciva dall’aula e traversava il magnifico cortile dell’Università Centrale (quella a cento metri dall’Elefante e dalla Cattedrale, per intenderci) attorniato da assistenti e studenti, come il monumento di sé stesso. Ma era un monumento sorridente e benevolo. Infatti la cittadinanza era rimasta sconcertata quando gli Alleati, invadendo Catania, lo avevano arrestato come complice del fascismo, solo perché rettore (già allora) dell’università. Orazio Condorelli era un’istituzione.
Del suo breve periodo in campo di concentramento – non potevano che restituirlo alla vita civile, dal momento che non avevano nulla di cui accusarlo – rimase famoso il fatto che barattava razioni di cibo in cambio di acqua, per potersi radere o lavarsi, non so più. Incantato dalla sua materia gli chiesi la tesi. Me la indicò (“La certezza del diritto”) e poi non ebbi più sue notizie. Nel senso che mi affidò ad un assistente il quale non si occupò di me e infine mi passò ad un suo sottoassistente, il quale di me conobbe soltanto la tesi scritta. Insomma fui lasciato completamente a me stesso, senza nemmeno una bibliografia decente, su quel tema. Mi ci scervellai da solo per un paio di mesi.
Inopinatamente, quella tesi divenne una seria pietra d’inciampo per la mia laurea. Non so perché cominciai a scontrarmi col professore di diritto penale (offeso, perché secondo lui avevo osato criticare Benedetto Croce. Allora c’erano ancora i “crociani”) e poi la discussione si allargò ad altri, mentre io cercavo di rispondere a tutti, senza paura. Mentre mi accapigliavo con i professori, la formalità della “discussione della tesi” si trasformò in una battaglia campale che durò circa un’ora. I parenti degli altri laureandi si spazientivano, si chiedevano se mai l’avremmo fatta finita, e il Presidente di turno, un prof.Cannada Bartoli di cui parlerò ancora, cercava di por termine alla rissa. Ma non ci riusciva.
Quando finalmente ebbe la parola, e passò alle famose “tesine” (piccoli codicilli di discussione di cui non capivo l’utilità) disse: “Lei ha una delle tesine con me. Che cosa pensa, della mia opinione?”. Ed io, dimostrando che non avrei mai imparato a vivere, risposi: “Non sono d’accordo con lei”. “Va bene così, può andare”, concluse lui. Più felice di vedermi sparire che di sapere perché non ero d’accordo.
Fu un sollievo. Più volte, nel corso della discussione, mi ero chiesto se non sarei rimasto negli annali dell’università per essere stato l’unico bocciato da undici professori in soglio. Seppi poi che quello che ho ingiustamente ho chiamato sottoassistente (divenne poi uno stimatissimo professore universitario), in assenza di Condorelli mi difese a spada tratta durante la discussione a porte chiuse sul voto da darmi. Sostenne infatti che meritavo il centodieci e non soltanto per la media: “Perché la sua tesi è eccellente, io l’ho letta e voi no”. Un uomo coraggioso.
A causa di un amico comune, conobbi e frequentai un po’ anche Mario Condorelli, il figlio del rettore. Me lo ricordo grassottello, con un fondo di timidezza e, come me, studente di legge. Una volta fui anche a casa sua, nel centro storico della città, e non posso dimenticare l’appartamento piuttosto buio nel quale traversai non so quante stanze con le pareti letteralmente ricoperte di libri giallini e polverosi, come li rende il tempo. Mi sentivo un analfabeta.
Mario frequentava le lezioni e studiava seriamente. Io non frequentai mai, anche perché mi svegliavo all’ora di pranzo. All’università andavo soltanto per fare gli esami, dopo avere ottenuto l’attestato di frequenza dando una mancia al bidello. Quanto a studiare, mentre Mario si presentava agli esami quando era preparato a bomba su tutti gli argomenti et quibusdam aliis, come avrebbe detto Pico della Mirandola, io perseguivo il diciotto, che grazie al cielo non mi dettero mai. Capii la differenza fra Mario e me una volta che andai con Gusti (diminutivo di Gustavo) a trovarlo nella sua casa al mare, ad Acitrezza. Per caso scoprii che ambedue stavamo studiando per l’esame di diritto del lavoro e gli chiesi: “A che punto sei?”. “A buon punto, sorrise lui. Ho già letto il libro sei volte”. L’avrei ucciso. Io leggevo il libro una volta, lo sottolineavo, infine rileggevo le sottolineature e mi credevo preparato. Lui era a buon punto dopo sei volte e ovviamente prendeva soltanto trenta e trenta e lode. Solo il professore Cannada Bartoli si cavò lo sfizio stupido di dargli ventinove in diritto amministrativo.
All’università c’era qualche imbecille che, sentendo della media di Mario, diceva: “Per forza, è il figlio del rettore!” mentre noi amici sapevamo la triste verità: Mario non meritava trenta e lode, meritava quaranta e lode. Forse cinquanta. E mi dispiacque molto quando morì ancora in giovane età. Tanto sforzo per meritare di divenire professore d’università, mentre un somaro come me (rispetto a lui) prosperava e prospera ancora oggi.
Di Mario ricordo ancora un indimenticabile particolare. Io mi ero innamorato della musica classica avendo sentito per caso, alla radio, la Sesta Sinfonia di Beethoven. Nessuno nel circondario aveva idea della musica classica ma per me fu come avere incontrato Euterpe, la musa della musica, sulla via di Damasco: la vocazione di una vita, il colpo di fulmine, l’amore imperituro. Se soltanto avessi avuto la pazienza di studiare, chissà che non ne sarei divenuto un professionista. Per fortuna non ero del tutto solo, il mio compagno di banco – eravamo sui sedici anni – studiava violino, e anche lui amava la musica classica. Due disadattati.
Un giorno (uscivamo a passeggiare sempre insieme) incontrammo Mario il quale ci disse, con umiltà: “Alcuni amici ed io stiamo fondando la Società Catanese Amici della Musica, SCAT, vi volete iscrivere? Siamo ancora pochissimi ma proviamo a farcela”. Dicemmo di sì, malgrado le nostre scarsissime finanze, e fu così che cominciammo a frequentare i concerti. E chiamarli concerti è un atto di generosità.
Ci ritrovavamo nel grande Teatro Massimo Bellini (rivisto una di queste sere in televisione come uno dei vanti della città) ma il musicista invitato era spesso uno solo, per risparmiare. Ricordo ancora tutto ciò che ho sentito per violino e pianoforte, esecutore un indimenticato Wolfgang Schneiderhan. Per fortuna anche trii e quartetti. E il pubblico? Il pubblico era composto da noi, pochi pionieri incapaci di occupare più delle prime tre o quattro file delle poltrone di platea. Mentre qualche giovane si infrattava nei palchi deserti per pomiciare con la ragazza.
Un mondo fra il tenero e il patetico, che tuttavia progrediva costantemente. Presto cominciammo a moltiplicarci di numero, ad avere perfino l’orchestra, e infine platea e palchi cominciarono a riempirsi. Arrivarono le signore in pelliccia e, come in una porta girevole, mentre loro entravano in teatro, io ne uscii. Definitivamente. Tornai alla musica da camera, ma nel senso della mia camera, in cui la musica riprodotta è stata una compagnia costante. Lo è nello stesso momento in cui scrivo: attualmente attraverso lo “stereo” mi parla Mendelssohn.
Ma ho citato Cannada Bartoli, quel professore di diritto amministrativo che dette 29 a Mario Condorelli. Era costui una leggenda per la competenza ma anche qualcosa come il Minotauro. Tutti avevano paura dell’esame con lui, anche perché era considerato estroso e imprevedibile. Inoltre interrogava da solo, senza assistenti (in barba alla legge) in un’aula dalla porta chiusa (in barba alla legge), dietro la quale scalpitavano e sudavano gli altri esaminandi, chiedendosi che cosa mai stesse avvenendo là dietro. Soprattutto in attesa di poter finalmente porre la fatidica domanda: non tanto “Che voto ti ha dato?” quanto “Che cosa ti ha chiesto?”
E al riguardo alcuni goliardi in mia presenza organizzarono una beffa crudele. Uno chiese all’altro: “La domanda spesso la teoria di Kreuzfeld?”. “No, spesso no, rispondeva il compare, ma il fatto è che io non l’ho capita bene”. “Nemmeno io, interveniva un terzo, ma è importante, almeno un’idea bisogna averla. So che Cannada Bartoli ci tiene…” E i terzi, spaventati e ignari, a chiedere: “Kreuzfeld? Ma di che si tratta? Ma io non ne ho sentito parlare. Ma nel libro dov’è?” E a chiedere ad altri, ignari come loro: “Tu ne sai niente?” “E se ci boccia, chiedendo questa dannata teoria?” Mentre i tre gaglioffi se la ridevano da matti, pregustando il piacere di raccontarla.
Venne il momento in cui chiamò anche me, nell’antro. Il Minotauro, mite e gentile, mi chiese di sedere di fronte a lui, a un metro, e dette inizio all’esame. Non mi sembrò niente di spaventoso. Era evidente che teneva al fatto che lo studente avesse capito i principi della materia, ma per il resto niente di speciale. Infatti ad un certo momento mi disse: “Io vengo da lei e le dico. Avvocato, mi succede questo e questo… Lei che cosa risponde?” Sapendo che era estroso e imprevedibile, parai la botta: “Le risponderei che non posso darle il mio parere perché non sono avvocato”. Cannada sorrise, e riprese: “Ha ragione. Ma facciamo che lei sia già avvocato…” Il ventotto che mi diede fu esageratamente generoso, rispetto al ventinove che aveva dato a Mario Condorelli.
All’università ho scoperto che, per essere promossi, un po’ bisogna studiare, e questo mi ha sgradevolmente sorpreso. Tanto che, a laurea conseguita, sono uscito dall’Aula Magna annunciando agli amici: “Ed eccomi finalmente disoccupato!”, essendo passato dallo status di studente a quello successivo, che veramente non sapevo quale potesse essere, ed essendo sicuro che la mia vocazione di nullafacente era in contrasto con l’idea di studiare per un concorso.
In seguito, approfittando della mia conoscenza di una lingua straniera (e dunque senza doverla studiare) ho cominciato ad insegnarla, cosa che per me – in confronto al tentativo di divenire avvocato, quando ero impegnato ogni mattina e ogni pomeriggio – è stato come non lavorare. Inoltre alla prima occasione mi sono messo in pensione e la mia vocazione si è finalmente realizzata: non lavorare e stare in casa ad ascoltare musica.
Gianni Pardo, giannipardo1@gmail.com
7 novembre 2021

RICORDI DI TEMPI LONTANIultima modifica: 2021-11-08T08:49:54+01:00da gianni.pardo
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5 pensieri su “RICORDI DI TEMPI LONTANI

  1. Gianni, mi associo a Roberto nell’apprezzamento dei suoi ricordi degli anni di universita’. Una piacevolissima lettura.
    Gradirei molto se volesse scrivere anche qualche memoria dei suoi anni di insegnamento. Una volta, se ben ricordo, lei scrisse qualcosa a proposito di aver bocciato il figlio del provveditore. Sono certo che ci saranno altre succose memorie.

  2. La ringrazio. Io penso sempre, con Blaise Pascal, che le moi est haissable, l’io è odioso. Uno può provare a renderlo leggero, quasi invisibile, ma il rischio permane. Il suo apprezzamento arriva gradito anche per questo.
    G.P.

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