IL FRAINTENDIMENTO DEL DOLORE

Il dolore è una sofferenza, dunque qualcosa di estremamente negativo. E tuttavia, dal punto di vista della natura, è qualcosa di estremamente utile: è il massimo segnale di pericolo.
Pinocchio, nella favola di Collodi, anche se parla e fa stupidaggini in quantità, è una marionetta di legno. Così, quando si addormenta con i piedi vicino al braciere, poi scopre che i piedi non li ha più, perché il fuoco li ha distrutti. Ovviamente l’episodio è in contraddizione con tutto il resto, ma in fondo è vero: se il fuoco non ci facesse saltare in aria al minimo contatto, anche noi potremmo ritrovarci con i piedi distrutti dal fuoco.
Ciò non impedisce che a volte il dolore sia qualcosa di inutile e per così dire parassitario. Il dolore per la morte di una persona cara non la fa risuscitare e non ci induce certo a non voler più bene a nessuno. Il mal di denti oggi ci fa correre dal dentista, ma un tempo si soffriva e non c’era rimedio. Se non l’estrazione senza anestesia, sai che divertimento.
Ma il dolore in generale rimane qualcosa di utile. È ciò che ci spinge ad andare dal medico, mentre la raccomandazione dei controlli periodici non ha la stessa efficacia. E si pensi a qualcosa di più banale, la fame: non soltanto essa ci spinge ad alimentarci regolarmente, ma quella vera, quella che non concede tregua, quella che rovina la gioia di vivere, quella che quasi ci impedisce di pensare ad altro, spinge a cercare da mangiare ad ogni costo. Perché ne va della vita. Dicono che il termine sandwich sia nato dal nome di un tale Lord Sandwich che amava talmente il gioco che, pur di non lasciare il tavolo, si faceva portare del pane col condimento dentro. Ebbene, avrebbe mangiato, Lord Sandwich, se oltre la passione per il gioco, non avesse anche sentito i morsi della fame? Il dolore è una regola universale per tutto ciò che vive. Esso ci grida: “Attivati per preservarti”. Perfino un’ameba, se nel suo brodo di coltura incontra una zona acida, si ritrae: lo lessi a sedici anni nel mio primo libro di Psicologia, il famoso Guillaume.
E tuttavia ho l’impressione che, nell’epoca contemporanea, il dolore e il suo messaggio siano oggetto di un fraintendimento. Mentre il messaggio della natura è rivolto a chi soffre, perché si attivi, nella società contemporanea è passata l’idea che la natura non si rivolge a chi soffre ma a chi – terzo – dovrebbe far cessare quella sofferenza. Il licenziamento di un operaio – o di cento operai, fa lo stesso – gli provoca un dolore, ma mentre l’originario messaggio della natura era: “Per continuare a mangiare devi trovarti un altro lavoro” ora si pensa che il messaggio sia: “Qualcuno deve porre rimedio al tuo dolore; bisogna vietare al tuo datore di lavoro di licenziarti; bisogna che, pur non lavorando, qualcuno ti fornisca l’essenziale; male che vada, qualcuno deve offrirti un nuovo lavoro, in linea con le tue capacità”. Insomma il dovere di attivarsi per far cessare il dolore è stato trasferito dall’interessato alla collettività. Naturalmente sempre che il numero dei licenziati possa creare un problema politico. La vicenda dell’Alitalia è un eccellente esempio di questo slittamento di responsabilità.
Una donna che ha un marito manesco, col dolore riceve dalla natura un messaggio inequivocabile: “Lascialo”. Invece che cosa ci si aspetta che faccia, la donna? Che denunci il marito e che lo Stato lo induca a non essere più manesco. O a maltrattare la moglie quando non ci sono testimoni. Questo non è un atteggiamento raro e le vittime involontariamente collaborano con l’ingiustizia. Troppo spesso chi soffre non vede la soluzione nel mutamento del proprio comportamento (per esempio reagendo efficacemente) ma nel mutamento del comportamento altrui. Il ragazzino che è vittima del bullismo dei coetanei non pensa come prima cosa ad imparare a difendersi, o ad essere insensibile agli insulti: pensa a denunciare i compagni perché loro la smettano.
Questa delega all’Autorità, per evitare la guerra di tutti contro tutti, è comprensibile per le cose importanti. In questo senso si capisce l’esclusiva dello Stato nel perseguimento dei reati o della vendetta giudiziaria. Ma i Carabinieri non possono scortare un dodicenne obeso che i compagni chiamano Bombolo o Palladilardo. Il ragazzino ha tutto il diritto di stramaledire i suoi genitori che l’hanno indotto ad avere cattive abitudini alimentari, ma in primo luogo deve dimagrire. E ricordarsi che se i compagni lo irridono è in primo luogo perché lui è grasso, non perché gli altri siano cattivi. Magari lo saranno, ma questo non cambia la realtà.
Oggi si è spinto a livelli assurdi il principio che la collettività è la responsabile dell’eliminazione del dolore dei singoli. Non si può dire nulla, nemmeno di banale, perché si è subito accusati di tremende nefandezze. Se un professore d’università dice di un collega: “Spiega letteratura con la sensibilità estetica di una portinaia” non ci si occupa di quanto sia competente quel collega, ma dell’offesa portata a quelle oneste lavoratrici che sono le portiere. E poi, che cosa impedisce che una portinaia sia una persona colta, ed anzi erudita, proprio in letteratura?
Guai a parlare dei due sessi, perché gli omosessuali hanno il diritto di protestare: “E noi non esistiamo?” Anche se la natura potrebbe rispondere: “Io ho progettato soltanto due generi di genitali, l’uso che ne fate è affar vostro”. Ma la natura così si mostrerebbe politically incorrect. Chissà, potrebbe anche essere accusata di comportamento antisindacale.
Questa mentalità materna è soprattutto una facciata. Secondo la retorica – quella che ha fatto dire a Giuseppe Conte che “nessuno sarà lasciato indietro” – la collettività dovrebbe correre a consolare chiunque soffra. E invece nella stragrande maggioranza dei casi chi ha un problema se lo deve risolvere da solo.
Se un ristoratore licenzia un cameriere perché ha difficoltà a far quadrare i conti, nessuno mai si occuperà della situazione di quel cameriere rimasto senza lavoro. E come lui sono rimaste senza lavoro molte decine di migliaia di altri, isolatamente. Viceversa nel caso dell’Alitalia abbiamo diecimila o più lavoratori economicamente inutili che rischiano quasi tutti di essere licenziati, e il Paese si preoccupa della loro sorte. E ciò non perché essi siano particolarmente meritevoli (ché anzi sono dei parassiti economici) quanto perché la vicenda diviene un problema nazionale. Questa non è economia e non è neanche morale: è semplicemente la politica di uno Stato debole coi forti ed esoso con i deboli. Il tutto in nome della bontà.
Gianni Pardo, giannipardo1@gmail.com
25 settembre 2021

IL FRAINTENDIMENTO DEL DOLOREultima modifica: 2021-09-25T09:57:58+02:00da gianni.pardo
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2 pensieri su “IL FRAINTENDIMENTO DEL DOLORE

  1. Un tempo il dolore era costantemente presente nella nostra vita. Dal mal di denti alle ferite in battaglia, alle punizioni corporali. Un tempo chi commetteva crimini minori, ad esempio rubare, era condannato ai “tratti di corda”. Ti legavano le mani dietro la schiena, ti sospendevano per i polsi, poi ti laciavano cadere e di colpo la corda si tendeva prima che toccassi terra. Causando terribili dolori, e il conseguente slogamento delle spalle e delle braccia.
    Eppure la corda veniva universalmente accettata.. Forse era considerata “una giusta penitenza”.
    Oggi si potrebbe dire che “ci siamo infiacchiti” rispetto al passato. Con tutte le conseguenze, sia negative che positive, che ne derivano.
    La repulsione verso il dolore porta tra l’altro ad atteggiamenti (il buonismo) che possono essere facilmente sfruttati per motivi politici. Ed al buonismo si associa, assai spesso, una notevole dose di ipocrisia. Un altro esempio e’ l’eccessiva indulgenza verso i ragazzi e i giovani. “Non devono soffrire”. Questi sono alcuni degli inconvenienti del nostro infiacchimento.
    Ma ci sono delle conseguenze positive. Ad esempio non accettiamo piu’ spettacoli circensi in cui uomini si scannano tra loro, o combattono contro belve feroci. Siamo piu’ sensibili al dolore degli animali, che una volta venivano sfruttati senza pieta’ fino alla morte. Oggi continuiamo a mangiarli, pur magari vergognandocene un po’, perche’ non c’e’ ancora un’alternativa.
    Purtroppo l’interesse (il bene supremo dacche’ e’ morto Dio) fa si’ che si organizzino guerre e bombardamenti per motivi economici e politici. Ma il cittadino comune viene tenuto ufficialmente all’oscuro dei motivi, perche’ potrebbe soffrirne. Un tempo non avrebbero usato tale delicatezza.
    Ci siamo infiacchiti, ma eticamente stiamo salendo. A velocita’ estremamente ridotta, ovviamente, e con le dovute eccezioni. Ma tutto sommato, io sono ottimista sull’andamento. Chiamatemi stupido.

  2. @gianni
    “Il dolore è una regola universale per tutto ciò che vive. Esso ci grida: “Attivati per preservarti” …. nella società contemporanea invece è passata l’idea che il dolore è stato trasferito dall’interessato alla collettività…”

    Sinceramente non mi pare che la collettivita’, intesa come istituzioni, senta alcun dolore, anzi, e’ una burocrazia cieca e completamente insensibile che agisce come una macchina input-output sul bilancio costi-benefici (misurato sul suo auto-espandersi e perpetuarsi). Piuttosto, essa il “dolore” si occupa di “redistribuirlo” spietatamente con una montagna di prescrizioni normative, obblighi, tasse e relativi sanzionamenti che avrebbero fatto la gioia di Pavlov.
    Tutto l’apparato istituzionale attuale, nonche’ l’economicismo pervasivo degli zero virgola, e soprattutto l’apparato educativo, sono pavloviani-comportamentisti (eysenck, che e’ lo stesso, non per caso, dei punteggi d’intelligenza), stimolo-risposta, incentivo-disincentivo, premio-punizione.
    Il modello e’ quello della macchina, la metafora della nostra epoca, che allo stimolo A reagisce sempre con il comportamento B.
    Direi che potremmo accontentarci. O ancora non ci basta?

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