BRAMINI

Ero ancora un ragazzo quando un signore francese mi definì “un sognatore”. Sul momento risi della definizione. Mi sentivo piuttosto un giurista, un amante della filosofia, un miscredente pessimista, e al “sognatore” non avevo mai pensato. Soltanto col tempo capii che aveva ragione. Ero un sognatore nel senso che non mi interessavo né al denaro né al successo, e mi disinteressavo perfino delle raffinatezze della vita. I libri mi piacevano molto più delle cravatte. M.Lucas aveva ragione, ero un sognatore. Certo, anche un fallito. Ma fallito è forse un’altra definizione di sognatore.
La seconda rivelazione la ebbi da un caro amico ipercomunista che dapprima ebbe la tentazione di definirmi di destra (pensava “fascista” ma era beneducato), poi, conoscendomi meglio, arrivò ad un’altra definizione: disse che ero un anarchico. E anche qui, a ripensarci, ho dovuto dargli ragione. Riconosco la necessità dell’autorità e della regola ma, se qualcuno esagera, se approfitta dei gradi sulla giacca, della toga e di qualunque potere, sento nascere in me istinti giacobini vagamente sanguinari. In questo senso sono anarchico. Da giovane ho ammirato quel signore che, spazientito, disse al un vigile urbano: “Senta, se c’è un’infrazione, mi elevi contravvenzione, ma non mi faccia la predica”.
Con queste premesse, da ragazzo ho stimato alcuni professori al punto da venerarli per il resto della vita, ma per tutto un anno, ed io ne avevo solo quattordici, ho contestato una professoressa nevrotica e prevaricatrice, fino ad avvelenare a lei la vita e a creare un problema all’intera scuola e al preside. Non fui bocciato perché dal punto di vista del profitto ero inattaccabile, ma lo stesso l’anno seguente cambiai Ginnasio. E se ero così con i calzoni corti, figurarsi da adulto.
Avendo vinto un concorso, i magistrati si credono superiori all’umanità giuridicamente, socialmente e – quel ch’è peggio – moralmente. Sono i nostri bramini. La casta superiore. Gli infallibili. C’è da stupirsene se ne ho un sotterraneo orrore?
E tuttavia devo riconoscere che non sono responsabili dei loro eccessi. Come ha detto Lord Acton, “Il potere corrompe, e il potere assoluto corrompe assolutamente”. Dell’ubriacatura di arroganza di cui soffrono i nostri magistrati non sono colpevoli loro, ma quelli che gli hanno dato un’autorità sconfinata unita ad una totale impunità e alla complicità dei colleghi. Ecco perché mi permetto anch’io, come Jonathan Swift, di formulare una modesta proposta.
Non potendo cambiare le loro teste, si può cambiare il loro modo di reclutamento. Bisognerebbe stabilire che nessuno può divenire magistrato se prima non ha esercitato la professione di avvocato per almeno sette anni. Così avrà imparato come si vedono le cose quando magistrati sono altri; quando si è sicuri di avere ragione e ci si vede dar torto; quando, pur sentendosi intimamente superiore a qualcuno, questo qualcuno bisogna trattarlo con reverenza. Come se superiore fosse lui. Insomma, come nelle accademie militari, prima di imparare a comandare, bisogna imparare ad obbedire. Prima di essere tentati di maltrattare gli altri, bisogna sapere come ci si sente quando si è maltrattati. Se questo è l’unico modo per imparare il significato di empatia, lo si adotti.
I magistrati devono essere educati a non dimenticare che sono cittadini come gli altri. Fallibili e, per dirla alla clericale, peccatori. Addirittura al punto da essere chiamati a rispondere civilmente e penalmente dei loro errori, come qualunque altro professionista.
Ogni atteggiamento di superiorità castale andrebbe sanzionato, e ogni sentenza davvero aberrante dovrebbe tradursi in una macchia sul curriculum del giudice che l’ha emessa. È triste, ma oggi nessun avvocato direbbe mai: “Ho intera fiducia nella magistratura”. O meglio, lo direbbe per paura, per captatio benevolentiae, ma non lo penserebbe mai.
Del resto mi risulta che il massimo panico, essendo accusati di qualcosa, lo dimostrano gli stessi magistrati. Anche se sono innocenti. Sarebbero terrorizzati se avessero fiducia nella magistratura? Invece sanno come vanno le cose e considerano il processo una pericolosa ordalia. E questo è il colmo della sfiducia.
Attualmente non c’è speranza: bramini sono e bramini restano. Mi chiedo come mi sentirei se mia figlia – avendone una – pensasse di sposare un magistrato. Forse le chiederei: “Ma sono proprio finiti, i figli di puttana?”
Gianni Pardo, giannipardo1@gmail.com
1° agosto 23021

BRAMINIultima modifica: 2021-08-01T09:44:19+02:00da gianni.pardo
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5 pensieri su “BRAMINI

  1. Avrei molto da ridire sul senso di onnipotenza degli insegnanti di scuola di ogni ordine e grado: sarà stato così prima del 1968, poi la cosa è andata via via scemando fino al disastro odierno. Oggi gli insegnanti sono degli sfigati (se mi si passa il termine) senza nessun riconoscimento sociale, con stipendi da segretarie di azienda alle prime armi, senza nessuna autorità, presi in giro in faccia dagli allievi e per di più devono avere a che fare con genitori che sono i sindacalisti dei figli. Se per caso (non sia mai) vogliono bocciare qualcuno devono fronteggiare l’opposizione prima del dirigente scolastico che deve rispettare gli input del Ministero che vuole la bocciatura solo come extrema ratio (una volta il preside era la figura più temuta dagli studenti, oggi è un amico), e poi dei genitori che non accettano la cosa e sono pronti a dare battaglia. Per non parlare delle chat WhatsApp tra i genitori e di che cosa innescano…
    Diverso è il discorso per il professore universitario, che ha invece mantenuto status e senso di onnipotenza.

  2. Osservazioni piene di prezioso buon senso. Porto a mia difesa tre osservazioni:
    1 E che altro modo c’è, per insegnare il rispetto dei “sottoposti”?
    2 Lei non tiene conto del fattore tempo. Tra reclute e vecchi ci sono alcuni mesi di differenza, tra i “miei” magistrati e quelli attuali, ci sarebbero sette anni o giù di lì.
    3 Comunque il sistema è quello anglosassone, per quanto ne so, e quei popoli se hanno una qualità, è il pragmatismo.

  3. “Prima di essere tentati di maltrattare gli altri, bisogna sapere come ci si sente quando si è maltrattati.”

    Gianni, gli uomini imparano per emulazione, piu’ che per mezzo di chiacchere: se li si mette in un contesto dove il bastone del successo sociale ce l’ha colui che opprime gli altri, essi da oppressi diventeranno oppressori appena gliene sara’ data la possibilita’, foss’anche solo che da elettori, e il circolo delle rivalse non finira’ mai.

    In caserma, che sotto questo aspetto era una scuola e un microcosmo di vita, al tempo della leva obbligatoria IMMANCABILMENTE si verificava il fenomeno del nonnismo, per il quale chi era stato gratuitamente vessato dai “vecchi” al momento del suo ingresso in caserma, riversava esattamente le stesse angherie, possibilmente con gli interessi, sui giovani in arrivo quando alla fine del periodo di leva diventava lui il “vecchio”. Nell’ambiente non c’era piu’ di una persona su 100 che, trascorso l’anno, si accorgesse del ripetersi del miserabile fenomeno proprio grazie a suo contributo attivo: figuriamoci vergognarsene.

    Forse, rivalersi del torto a suo tempo subito su altri piu’ deboli, per i piu’ e’ l’unico modo per riportare in pareggio il bilancio dell’autostima, costi quel che costi.

    La societa’ italiana e’ fatta, e comandata, da gente cosi’, oggi come ieri.
    Come lei stesso osservo’ anni fa, fra i piu’ a rischio di precipitare nel pozzo del delirio di onnipotenza oltre al caso ben noto dei magistrati c’e’ quello piu’ comune dei docenti di scuola di ogni ordine e grado, con i quali in effetti e’ difficile instaurare un rapporto di dialogo paritario fra “civili”: essi, per l’esperienza che vivono nel loro ruolo istituzionale, credono sempre di saperne piu’ degli altri. Purtroppo sono gli stessi che formano con l’esempio le nuove generazioni: la materia piu’ importante che insegnano quindi e’ nel “non detto” che sta nel principio gerarchico di autorita’, fondamentale per il sussistere delle nostre societa’ complesse e organizzate in forma di meccanismo. Altro che anarchia…

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