Secondo le intenzioni di Joseph Biden e del Partito Democratico, Kamala Harris dovrà sostituire il Presidente uscente per la corsa alla nomination. Ma già negli stessi Stati Uniti, al di fuori della Casa Bianca, il Vice Presidente è una persona di ben poco rilievo: Tanto che si è autorizzati a dimenticarne il nome: mi chiedo quanti in Europa – o perfino negli States – conoscessero il nome di Lyndon B.Johnson prima che Kennedy fosse assassinato.
Nel caso di Harris ci sono delle aggravanti. Non solo Kamala non si è fatta notare per nessuna prodezza, ma le era stato affidato il dossier immigrazione clandestina e la sua azione è stata assolutamente deludente. Donald Trump infatti ha ripreso risolutamente l’argomento promettendo, come al solito, che lui invece farà miracoli. E tuttavia, secondo i giornali benevoli (tutti pronti a scrivere ditirambi e intonare peana) Harris è una persona notevole. È stata una severa Procuratrice (più o meno come il nostro Procuratore Generale) dalla dialettica corrosiva, in aula. Dunque, si presume, sarà capace di rimbeccare Donald Trump in modo molto più mordace di quanto sapesse fare Biden. Tanto che oggi molti si sbracciano a dire che con lei la competizione sarà molto diversa e possibilmente vincente. Addirittura si sostiene che, secondo gli attuali sondaggi, nelle previsioni di voto Harris sopravanza Trump. Per non parlare dell’improvviso e generoso flusso di finanziamenti a suo favore.
E tuttavia questo ottimismo sembra eccessivo. Già i precedenti di concorrenti scelti all’ultimo momento non sono incoraggianti. Inoltre l’attivismo dei sostenitori probabilmente risponde, più che a qualche seria previsione di vittoria, ad una precisa direttiva concordata dal Partito Democratico con i suoi esponenti più in vista: così si spiega il sostegno di Nancy Pelosi, di Hillary Clinton, di Alexandria Ocasio-Cortez e di tanti altri. La molla di questa unione sacra si spiega con la coscienza che si parte svantaggiati e per questo bisogna lavorare (e dimenarsi, e gridare) il doppio del normale. Perché siamo a tre mesi dalle elezioni o poco più. Ma servirà a qualcosa?
Un ulteriore elemento di sospetto, a proposito di questo unanimismo, è la questione finanziaria. Infatti, col nome Harris (che era già nel ticket alle elezioni del 2020) si conservano tutte le somme versate dai sostenitori per la campagna elettorale, mentre non è sicuro che si sarebbero conservate con un nome nuovo. Infine molti considerano un enorme vantaggio il fatto che Kamala sia donna e di colore. Ma in realtà nemmeno questo è decisivo. Otto anni fa Trump era già demonizzato (perfino dal partito repubblicano), Hillary Clinton era già molto nota, e tuttavia fu battuta. Quanto all’essere di colore, soprattutto in politica estera, non è che Barack Obama abbia seriamente fatto onore alla metà nera del suo Dna. E Federico Rampini si dichiara sicuro che gli afroamericani (tradizionali e importanti elettori democratici) odiano Harris e certo non la voteranno. Non so perché.
Credo sia stato durante la campagna elettorale di Nixon che il team democratico degli specialisti di campagne elettorali trovò uno slogan efficacissimo. Dal momento che Richard Nixon era considerato dai suoi avversari un furbastro e forse un disonesto (lo chiamavano Tricky Dicky) pubblicarono un manifesto con una sua fotografia, scrivendoci sotto: Comprereste una macchina usata da quest’uomo? Dunque anche oggi, al momento del voto, molti si chiederanno se sia il caso di affidare ad una donna che in fondo non conoscono il loro destino e quello dell’America. Secondo Edward Luttwak, Federico Rampini ed altri competenti, malgrado il clamore attuale, Harris non ha molte possibilità di vincere.
La sensazione generale di questo momento è che le grida di riscossa e quasi di vittoria siano soltanto propaganda elettorale: tutto orchestrato dalla dirigenza del Partito Democratico che si è prima assicurato che nel coro nessuno facesse una stecca e poi ha lanciato la campagna pubblicitaria. Con la speranza di far sì che la sconfitta, se sconfitta deve essere, non sia una umiliante disfatta. Quanto ai giornali del mondo occidentale, è ovvio che guardino con simpatia e quasi con qualche aspettativa a Kamala Harris. Da noi, come in America, gli intellettuali si sentono in dovere di essere di sinistra e dunque hanno una viscerale antipatia per Trump.
Ma tutti questi discorsi, soprattutto in Europa, sono inutili. In novembre ogni elettore americano voterà secondo la sua opinione e non secondo la nostra. O quella degli intellettuali.
@Emanuela
odioso Trump?
A me sta simpatico, con quelle sue mossette…
E meno male che non votano secondo l’opinione degli intellettuali…
Nell’eventuale elezione di Trump ci sarebbe di buono che cambierebbero le politiche ambientali degli USA e questo isolerebbe ulteriormente la UE, con la possibilità (forse) di riportare Bruxelles ad un barlume di ragione. Ragione di cui c’è un estremo bisogno da quelle parti, dato che il responso del voto popolare è stato ignorato e ci ritroviamo coi verdi in maggioranza a sentire parlare di “green deal” come se nulla fosse.
Per la precisione, Kamala Harrys è nata a Oakland, California, da madre indiana, immigrata da Chennai (India), e da padre di origine giamaicana.
In effetti, le osservazioni di Rampini mi sembrano sensate, tenendo conto dell’ “America profonda” (non quella delle università famose, dei “ggiovani” e degli intellettuali di élite o di chi posa e posta come tale). E la cosa disperante è che entrambe le figure sembrano poco consone alle responsabilità (interne ed internazionali) degli USA. Oddìo, tutto può essere, che la Harris, qualora vincitrice (e certo meno odiosa e disonesta di Trump) si riveli persona responsabile e di valore (e comunque molto dipenderebbe anche da chi si circondasse) ma è una scommessa. E anche questa imbarazzante situazione sembra essere un “derivato” dell’ostentazione e della radicalizzazione sui “social”: tutto serve allo spettacolo.