LA CONDANNA DI DAVIGO

Piercamillo Davigo non mi è simpatico ma è un tipo d’uomo che rispetto. Non lo conosco bene e non conosco a sufficienza le ragioni per le quali la Corte d’Appello, confermando la sentenza di primo grado, lo ha condannato a un anno e tre mesi di reclusione per violazione del segreto d’ufficio. E tuttavia mi si perdonerà se considero quest’uomo del tutto innocente, dal punto di vista soggettivo. Mai – penso – Davigo violerebbe la legge, se è vero che ha dedicato l’intera vita alla sua più severa applicazione. Sarebbe come accusare il Savonarola di ateismo. E tuttavia – ironia della storia – come a suo tempo la Chiesa accusò e condannò Girolamo al rogo per eresia, i giudici di Brescia non hanno esitato a condannare questo illustre personaggio. Come può essere successo?
La prima ragione del fenomeno è che i magistrati (e soprattutto i magistrati anziani, ma parlo in generale) sono stati per molti decenni dal lato giusto dell’applicazione della legge, tanto che l’idea che qualcuno la applichi a loro sembra inverosimile. È come se un vecchio cacciatore incontrasse un coniglio che imbraccia una doppietta. In secondo luogo, un magistrato anziano ha visto troppe sentenze di colleghi che gridavano vendetta dinanzi all’Altissimo, e ne ha dedotto che, se professionalmente sono sopravvissuti quei colleghi, la realtà è che i magistrati godono di fatto dell’impunità, qualunque cosa facciano; o quasi. E niente di diverso ha visto chiunque abbia fatto parte del Csm, sopratutto nel campo della sua attività disciplinare. Decine di magistrati che meritavano di essere rimandati a casa con un calcio nel sedere se la sono cavata con un buffetto sulle guance e qualche mese di perdita di anzianità.
Infine, e questo dato è fondamentale per Davigo, personalmente immagino che non avrà nemmeno pensato alla violazione del segreto d’ufficio. Perché quel segreto dovrebbe operare nei confronti dei terzi, non dei magistrati: cioè non nei confronti di chi quei segreti potrebbe utilizzarli soltanto per il bene della nazione e per la migliore applicazione della legge. Un ginecologo non è un pornografo.
In altre parole – potrei sbagliarmi – Davigo mi appare come quei personaggi tragici che alla fine finiscono vittime della loro stessa ideologia. Non a caso si è citato Girolamo Savonarola. Ma gli esempi sono numerosi, da Origene che esagerò nella sua lotta contro la lussuria, al Tribunale rivoluzionario della Terreur, per non parlare di Saint-Just, di Fouquier Tinville e ovviamente di Robespierre. Quando un uomo si dedica con eroico zelo ad una passione divorante, fino a sacrificarle sé stesso, non è raro che quella stessa passione – condannata dagli dei come hybris, eccesso – lo uccida.
Ecco perché ho presunto e presumo che Davigo sarà colpevole di parole imprudenti (ha detto per esempio, più o meno, «Gli innocenti sono i colpevoli che non sono stati ancora scoperti»), di un’eccessiva sacralizzazione della giustizia e di altro ancora, ma nel caso specifico presumo che, soggettivamente, non si sia reso colpevole di nulla. Alla violazione del segreto d’ufficio non avrà neanche pensato: «Fra noi?» Solo che lui non faceva più parte dei noi.
Non insisto sul caso specifico, anche perché, come ho detto, ne so poco o nulla. Più interessante mi pare la constatazione del rischio del backfire (retroazione) insito nell’eccesso. Alcuni credono che la legge migliore sia quella draconiana, che non guarda in faccia nessuno, che non fa eccezioni, che non concede attenuanti. E non è così, se lo stesso codice penale, all’art.384, prevede una sfilza di reati per cui non si è punibili se li si è commessi per aiutare un congiunto. Ecco le parole esatte: «Nei casi previsti dagli articoli 361, 362, 363, 364, 365, 366, 369, 371-bis, 371-ter, 372, 373, 374 e 378, non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore». Cioè la legge tiene conto dei sentimenti di un singolo o di un padre, e non dovrebbe farlo il giudice? Il codice cerca di non essere fanatico e ci dà anzi una grande lezione di umanità: diversamente dovremmo dare ragione a Cicerone quando ha detto summum ius, summa iniuria, il massimo del diritto [può corrispondere a] la massima ingiustizia.
Il principio che nessuno mai dovrebbe dimenticare è che la legge serve alla giustizia, non alla sua meccanica auto-applicazione.

LA CONDANNA DI DAVIGOultima modifica: 2024-03-10T11:21:35+01:00da gianni.pardo
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