DISCUTERE COL COCCODRILLO

Immaginate di essere seduti intorno ad un grande tavolo. Tutti gli altri sono dei capi di Hamas e parlano di organizzare quello che poi sarà il famoso 7 ottobre. Domanda: «Pensate che sareste capaci di distoglierli dal loro progetto, non per motivi morali, ma prospettando la possibilità di una violenta reazione di Israele, tanto che di quella prodezza poi si sarebbero dovuti pentire tutti, a Gaza?». Non vi strapazzate le meningi: la risposta è chiaramente no. Ed ora chiedetevi: parlando da un balcone alla folla di Gaza, l’avreste indotta a rinunciare a quel progetto, ammesso che se ne potesse parlare in pubblico? Ancora una volta la risposta è no. Il fenomeno è ben noto. I giovani, gli emotivi e gli inesperti sottovalutano i pericoli e non credono mai alla possibilità di conseguenze molto negative. Tutti i marinai hanno paura del mare, tutti i bagnanti della domenica sono impavidi. Dunque nessun discorso – né di umanità, né di politica, né di semplici rischi – fa cambiare l’opinione dei fanatici. E qui mi torna in mente un aneddoto. Un tizio aveva come animale da compagnia un coccodrillo. Quando il coccodrillo si comportava bene il padrone lo mostrava con orgoglio ai suoi amici, quando si comportava male lo prendeva a martellate in testa. «Martellate?», si scandalizzò uno. «Ma gli farai male, non dovresti trattarlo così». L’altro non vacillò: «Prova tu, a discutere con un coccodrillo», disse.
Tutto l’Occidente è più o meno scandalizzato per l’alto prezzo che la popolazione di Gaza è chiamata a pagare per avere sostenuto le iniziative criminali di Hamas. Iniziative di cui quella del 7 ottobre è la più tremenda, non la prima. Sono decenni che Hamas cerca di ammazzare civili israeliani. Ogni volta che hanno esagerato, l’aviazione israeliana ha risposto con raid mirati contro obiettivi militari. Ma ogni volta Gaza ha ricominciato. Insomma, fino al 6 ottobre, Israele ha continuato a chiedere che la lasciassero in pace. Dall’8 ottobre ha impugnato il martello. Ecco perché la popolazione di Gaza è da compiangere fino ad un certo punto. Essa non è all’inferno, come ha detto un funzionario delle Nazioni Unite: è a scuola. Se non c’è modo di insegnare ad una popolazione che non le conviene essere bellicosa, l’unico sistema è quello di farle assaggiare fino in fondo l’amaro calice della sconfitta.
Di questa esperienza storica abbiamo avuto un eccellente esempio in Europa. La Prussia era un astro sorgente, nell’Ottocento, e il suo innegabile battesimo si ebbe nel 1866 quando, a Sadowa, sconfisse l’Austria. Berlino cominciò a contare e, sicura di sé, nel 1870 attaccò la Francia. Vinse anche questa guerra e si annetté due regioni francesi. Credendosi forse invincibili, nel 1914 i tedeschi si allearono con gli austriaci, pensando di vincere la Prima Guerra Mondiale, ma non fu così. Dopo infiniti massacri, nel 1918 i generali, comprendendo che gli Imperi Centrali avevano tecnicamente perso, deposero le armi prima che il proprio territorio subisse i danni e l’umiliazione di un’invasione. E fu il Trattato di Versailles.
In questa occasione successe l’imprevedibile: i generali avevano risparmiato il peggio ai loro connazionali ma i cittadini, non avendo personalmente assaggiato la sconfitta, interpretarono la resa come un tradimento. Non s’era visto nemmeno un francese, sul territorio della Patria, e ci si arrendeva? Nacque così il revanscismo tedesco. Non a caso nel 1940 Hitler volle che la resa francese fosse firmata nello stesso vagone ferroviario nel quale era stata firmata quella tedesca del 1918.
Purtroppo per la Germania, questa vittoria temporanea si concluse poi con le distruzioni più estese che mai si fossero viste in Europa. Con uno strabiliante numero di morti, con l’umiliazione più cocente che si potesse immaginare e, con in più, la perdita dell’onore, per un Paese che aveva attuato la Shoah. Nel 1918 i tedeschi non avevano creduto alla sconfitta; nel 1945 invece alla sconfitta credevano persino le pietre e le macerie di Berlino. Per decenni i tedeschi non hanno più voluto sentir parlare di guerre e non hanno sognato rivincite, ché anzi, perché la Germania acconsentisse a crearsi di nuovo un esercito (se lo sta ricostruendo in questi anni) è stato necessario implorarla. Perdere teoricamente è un conto, subire quello che hanno subito i tedeschi è un altro conto. E tuttavia, se con certi sognatori bellicosi questo è l’unico modo per avere la pace, ben vengano questi sistemi.
Ecco perché Israele, pur non mirando ad uccidere civili, rimane durissima. Oltre che per il naturale rancore per il 7 ottobre, è convinta che Gaza ha disperatamente bisogno di un’indimenticabile lezione. Ed è quella che sta ricevendo. Negli anni scorsi, se voi aveste spiegato alla popolazione che essa viveva della carità internazionale, riceveva l’acqua e l’elettricità da Israele, e che provocare la sua forte vicina era come tirare la coda del leone, non vi avrebbe ascoltato. Oggi non è più necessario dirle niente: le argomentazioni razionali sono largamente battute in efficacia dialettica dai morsi della fame, dal numero dei lutti, dalla scomodità di vivere al freddo sotto una tenda. Col rischio che ci piova anche dentro. Ma più sono dure le teste, più grosso deve essere il martello.

DISCUTERE COL COCCODRILLOultima modifica: 2023-12-26T09:03:10+01:00da gianni.pardo
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2 pensieri su “DISCUTERE COL COCCODRILLO

  1. Articolo condivisibile. Però non furono i generali del Kaiser che nel 1918 deposero le armi perché avevano capito che la guerra era perduta: fu una rivoluzione non troppo dissimile da quella russa dell’anno prima che portò alla caduta del Kaiser e all’armistizio. Quando Hitler inveiva contro “i criminali di novembre” non si riferiva ai generali prussiani.

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