PIETRO MASO AL LAVORO

PIETRO MASO AL LAVORO

Diciassette anni fa Pietro Maso uccise ambedue i genitori per avere sùbito l’eredità. Recentemente, con grande scandalo di molti, ha ottenuto la semilibertà per buona condotta ed è andato a lavorare in un’impresa come magazziniere. Di fronte a notizie del genere non si sa che cosa pensare.

Da un lato la pena deve tendere alla rieducazione del condannato, e dunque non c’è niente da criticare; dall’altro, chi può dimenticare il passato? Anche quando la pena è stata interamente scontata, anche quando si è autorizzati a dire la famosa frase, “ho pagato il mio debito”, si possono giudicare nello stesso modo un uomo che trent’anni prima ha fumato uno spinello e un uomo che ha ucciso padre e madre?

Bisognerebbe raccomandare a tutti di concedere una possibilità di vita e lavoro anche a chi è stato in carcere: diversamente lo si costringerebbe a vivere di delitto. Ma sarebbe anche opportuno segnalare a chi pensa di violare la legge che il codice penale non dice tutta la verità. Quando commina per un dato reato “la reclusione da tot a tot anni” non avverte che accanto a quello del magistrato c’è il giudizio della società. A volte per essa non esiste né prescrizione né fine pena. La collettività non si limita a difendere se stessa con i carabinieri e il codice penale: si difende anche col giudizio morale e un’emarginazione che, un giorno, potrebbe essere più dura da sopportare della stessa pena detentiva. Per questo l’espressione “ho pagato il mio debito” va bene nel diritto civile: nel diritto penale, se il reato è grave, il debito non si finisce mai di pagarlo.

La società si regge sulla convenzione che certe regole vanno rispettate. Anche se la legge considera reato tanto l’evasione fiscale quanto il parricidio, la gente distingue benissimo le due fattispecie. L’evasione crea un danno alla collettività, e in parte minima al singolo cittadino: viceversa il rapinatore violento allarma perché potrebbe aggredire noi e i nostri cari. E per questo non c’è perdono. La sicurezza delle donne, dei vecchi, dei bambini ed anche delle persone isolate o disarmate si fonda sulla repressione dei reati contro la persona. Per questo chi, come Pietro Maso, ha ucciso ambedue i genitori per impossessarsi dei loro beni, è visto come la quintessenza di ciò che è condannabile. Non è concepibile né perdono né oblio. Ognuno pensa alla propria sicurezza, ai sacrifici che ha fatto per i figli e all’amore che ha dato loro. Un parricida per interesse è la contraddizione più totale delle regole su cui si fonda la società.

Si può, per audacia, andare contro le regole della convivenza, ma bisognerebbe cercare sempre di rimanere all’interno di quel limite che fa parlare di una ragazzata o un’imprudenza. Se si supera una certa soglia c’è il rischio che non si possa più sperare nell’oblio. Nessuno incaricherebbe un pedofilo di accompagnare i propri figli piccoli a scuola, neanche se ha già scontato la sua pena ed ha fatto anni di buona condotta in carcere. La legge Gozzini esiste per i magistrati, ma non per le famiglie. Nemmeno per le loro.

Gianni Pardo, giannipardo@libero.it

24 ottobre 2008

 

CHI MERITA DI ESSERE POVERO

Quando si parla di ricchezza di solito lo si fa in una di queste due direzioni: o ci si riferisce alla produzione di beni e servizi, all’interno di un Paese, e in questo caso è un concetto positivo, oppure ci si riferisce alla quantità di beni posseduta da una singola persona, e in questo caso è un concetto tendenzialmente negativo. Dalla constatazione dell’esistenza di poveri e ricchi si passa infatti alla condanna dell’ingiusta distribuzione della ricchezza, come se mai qualcuno l’avesse distribuita.

Le “disparità sociali” suscitano immagini mentali costanti. Il povero è un padre di famiglia che vive in un tugurio, che non sa che cosa dare da mangiare a dei figli smunti e vestiti di stracci, mentre il ricco è un signore panciuto che vive circondato dal lusso più sfrenato, senza fare assolutamente niente. E mentre il primo non ha nessuna possibilità di sfuggire al suo infame destino, il secondo non ha fatto nulla per meritare la sua situazione di privilegio. L’idea di base è che “qualcuno” abbia dato poco ad uno e troppo all’altro: e per questo si parla di “ridistribuzione”.

Questa diagnosi della realtà – fondamentalmente falsa – ha qualche giustificazione storica. In passato la massima ricchezza – quasi l’unica – è stata la terra. E poiché la proprietà terriera si tramandava di padre in figlio, c’era chi nasceva ricco, e rimaneva tale per tutta la vita, e c’era chi nasceva povero e tale rimaneva. Un tempo la possibilità di passare dalla povertà alla ricchezza, o viceversa (mobilità sociale) è stata molto scarsa.

La situazione ha del resto giustificato in parte le teorie di Jean-Jacques Rousseau e il sentimento, largamente diffuso, per cui la possibilità di lasciare in eredità ai propri figli infingardi la ricchezza accumulata è un’ingiustizia. Né lontano da queste idee è stato Karl Marx il quale, assegnando allo Stato la proprietà dei mezzi di produzione (e il primo mezzo di produzione è la stessa terra), aboliva la ricchezza ereditaria. Purtroppo queste teorie, plausibili dal punto di vista morale, sono rovinose dal punto di vista economico. Chi ha tentato di applicarle ha abolito i ricchi (non quelli “più uguali degli altri”) ma ha impoverito gli stessi poveri. Tanto che oggi nessuno ne parla più.

La migliore soluzione, per attenuare le ingiustizie sociali, è la possibilità di cambiare la propria situazione col proprio lavoro e con la propria genialità. Cosa certo possibile nella civiltà contemporanea. Negli Stati Uniti dei tempi eroici ci si vantava della possibilità di cambiare la propria sorte, passando da spiantati a miliardari. E anche in Italia si è a lungo parlato della sorte di alcuni Martinitt – bambini allevati in un orfanotrofio – che sono diventati magnati dell’industria: un nome per tutti, Angelo Rizzoli. La mobilità sociale non è una comoda autostrada ed anzi la scalata al successo e alla ricchezza è raro che riesca: ma non è impossibile.

Nella società contemporanea ognuno non si deve tanto chiedere se la propria situazione sia giusta o ingiusta, quanto che cosa ha fatto per divenire ricco e se ne ha la capacità. Non c’è infatti tanto una “distribuzione” della ricchezza quanto una “conquista” della ricchezza.

È vero che per questa impresa alcuni partono meglio equipaggiati di altri – il figlio dell’avvocato può ereditare la clientela del padre – ma nessuno è escluso dalla corsa. Come prova la storia di molti, anche semi-analfabeti.

In questo esame di coscienza bisogna escludere quei meriti che sono molto apprezzati dallo stesso interessato ma non dalla società. Se uno ha le mani che non tremano e sa costruire mirabolanti castelli di carte non per questo dovrà attendersi pubblici riconoscimenti e milioni di euro. Analogamente, se ci si considera ottimi scrittori, pittori di genio, o inventori di miracolosi congegni, è inutile rammaricarsi. Questi diplomi nessuno li può attribuire a se stesso ed anzi in linea di principio bisogna accettare l’idea che si è ricchi o poveri esattamente secondo ciò che s’è saputo fare nella vita. Proprio per questo personalmente riconosco che merito di essere povero. Ammesso che avessi qualche merito, non ho mai saputo monetizzarlo – per ignavia, per orgoglio, per mancanza di ambizione e soprattutto per pigrizia – e non si vede perché dovrei essere ricco, avere una carica importante o esercitare una professione di prestigio.

Chi legge oggi avrà finalmente conosciuto uno che dice: sono un povero che merita di essere povero.

Gianni Pardo, giannipardo@libero.it

23 ottobre 2008

 

 

PIETRO MASO AL LAVOROultima modifica: 2008-10-25T11:29:05+02:00da Giannipardo
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