LA FINE DELLA GLOBALIZZAZIONE

La guerra in Ucraina ha portato ad uno scontro commerciale con la Russia che economicamente ha danneggiato in primo luogo Mosca, ma certamente danneggia anche l’Occidente. Infatti, pure potenza di seconda categoria dal punto di vista industriale, la Russia è ricca di materie prime di cui l’Occidente ha bisogno. Materie prime che un tempo offriva ad un prezzo concorrenziale e che ci aiutavano nella produzione. L’interruzione del flusso ha dunque impoverito, economicamente, gli ex partner commerciali.

Come se non bastasse questa chiusura economica, i contrasti commerciali fra Occidente e Cina (forse il più importante terreno di scambio mondiale) hanno portato ad una sorta di guerra dei dazi. L’Occidente ha infatti reputato che il governo cinese, sovvenzionando la vendita delle sue auto elettriche da noi, ha attuato una concorrenza sleale. E così prima gli Stati Uniti e poi l’Europa Occidentale hanno imposto livelli di dazio insostenibili per quelle automobili, tanto da renderle invendibili e fino a provocare uno scontro con Pechino. La Cina infatti promette di rispondere adeguatamente.

Giustamente molti si chiedono con preoccupazione: stiamo assistendo alla fine della globalizzazione economica? Perché questa fine sarebbe un grave danno per l’umanità. E questo va spiegato. Per quanto il principio dell’utilità dello scambio sia un’assoluta evidenza per i competenti, se ne può ricordare il senso ai più distratti.

Ammettiamo che un uomo faccia il pieno alla sua automobile e paghi cento euro. Si potrebbe pensare ad un’equivalenza del tipo cento euro = un pieno di benzina, ma non è così. Infatti, se ci fosse quell’equivalenza, l’automobilista non avrebbe interesse a comprare il carburante. Se lo compra è perché gli serve per il percorso che deve fare, e dunque quel carburante vale per lui più di cento euro. E lo stesso per il benzinaio. Per lui cento euro valgono più di un pieno di benzina, e infatti cede il pieno per avere il denaro. In altri termini, nello scambio, guadagnano ambedue i contraenti. E se si vieta o si impedisce quello scambio, ambedue ci perdono.

Teoricamente dunque, ogni volta che si impedisce uno scambio, si ha una perdita economica. E tuttavia ci possono essere serissime ragioni per preferire quella perdita. Immaginate che Hamas, sovvenzionata dagli Stati del Golfo, proponesse a Israele di venderle dieci carri armati Merkava. Gerusalemme certo non glieli cederebbe mai, neanche se la proposta fosse economicamente allettante, proprio perché presto quei carri prenderebbero a cannonate i soldati israeliani. Lo stesso per le auto cinesi: se costano di meno, i consumatori occidentali preferirebbero le auto cinesi; ma se questo dovesse portare al licenziamento di migliaia di operai e tecnici? se questa preferenza dovesse portare alla chiusura delle analoghe industrie occidentali? e chi dice che, in caso di bisogno, una linea di produzione auto non potrebbe essere trasformata in una linea di produzione di carri armati, per una guerra non prevista? Insomma, esistono linee di produzione di importanza secondaria (lo spumante, per dire), ma esistono linee di produzione di importanza strategica, nel senso che, cambiando il vento, ne potrebbe dipendere l’indipendenza della nazione. Come l’industria che produce armi.

Negli anni recenti, illudendosi il mondo su una pace durevole, anzi eterna, si era giunti alla globalizzazione sulla base del principio per cui questa globalizzazione (purché in termini di concorrenza leale) convenisse a tutti. Poi la Russia ha fatto scoppiare il palloncino dell’irenismo e il mondo si è ritrovato in mutande. Naturalmente, peggio di tutti, l’Ucraina. Gli uomini hanno finalmente capito che l’istinto della guerra non è morto e forse, purtroppo, non morirà mai. Che parlare di pace non serve a impedire la guerra; che essere pacifici e disarmati non è un’arma possente contro gli invasori, e tutte le altre cose che l’umanità ha sempre saputo, dalla guerra di Troia fino al 1945. Lo stesso famoso principio per cui dove passano le merci non passano gli eserciti è falso. E infatti la Germania ha veramente rischiato grosso, nel 2022, quando aveva creduto di avere fatto della Russia un partner economico strategico. Forse il principio giusto è: dove possono passare gli eserciti, bisogna stare attenti alle merci che passano.

Ecco perché la globalizzazione è tramontata. Perché molti Paesi si sono finalmente ricordati che la loro indipendenza e la loro libertà valgono più di qualche sconto sulle auto elettriche o sul prezzo del gas. Il mondo è ritornato ad essere più normale.

LA FINE DELLA GLOBALIZZAZIONEultima modifica: 2024-06-27T06:40:52+02:00da gianni.pardo
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2 pensieri su “LA FINE DELLA GLOBALIZZAZIONE

  1. La diagnosi di “fine della globalizzazione” (come la notizia della morte di Twain commentata dallo stesso autore statunitense) mi sembra un po’ esagerata: diciamo piuttosto che la G. è entrata in una nuova fase, forse più consapevole e matura. Inoltre si attendono ancora:
    1) la G. del Diritto, in grado di tenere davvero a freno comportamenti aggressivi e chiaramente spregiatori del D. internazionale come quello attualmente tenuto dalla Fed.ne russa;
    2) la G. di una Politica il più possibile multilaterale e transnazionale (federale) in grado di contro-bilanciare gli eccessi/squilibri della G. meramente economico-commercial-finanziaria.
    Da qs punto di vista un prezioso modello può essere costituito dalla Ricerca scientifico-tecnologica. Saluti

  2. “il mondo è ritornato ad essere più normale” = se mi consentite un paradosso un po’ ironico : come generalmente pare meglio che tra suocera e nuora ci stia di mezzo un portone, così è igienico che tra Stati ci stiano di mezzo dei confini preferibilmente controllati da gente armata … .

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