Gianni Pardo

BRAMINI

Ero ancora un ragazzo quando un signore francese mi definì “un sognatore”. Sul momento risi della definizione. Mi sentivo piuttosto un giurista, un amante della filosofia, un miscredente pessimista, e al “sognatore” non avevo mai pensato. Soltanto col tempo capii che aveva ragione. Ero un sognatore nel senso che non mi interessavo né al denaro né al successo, e mi disinteressavo perfino delle raffinatezze della vita. I libri mi piacevano molto più delle cravatte. M.Lucas aveva ragione, ero un sognatore. Certo, anche un fallito. Ma fallito è forse un’altra definizione di sognatore.
La seconda rivelazione la ebbi da un caro amico ipercomunista che dapprima ebbe la tentazione di definirmi di destra (pensava “fascista” ma era beneducato), poi, conoscendomi meglio, arrivò ad un’altra definizione: disse che ero un anarchico. E anche qui, a ripensarci, ho dovuto dargli ragione. Riconosco la necessità dell’autorità e della regola ma, se qualcuno esagera, se approfitta dei gradi sulla giacca, della toga e di qualunque potere, sento nascere in me istinti giacobini vagamente sanguinari. In questo senso sono anarchico. Da giovane ho ammirato quel signore che, spazientito, disse al un vigile urbano: “Senta, se c’è un’infrazione, mi elevi contravvenzione, ma non mi faccia la predica”.
Con queste premesse, da ragazzo ho stimato alcuni professori al punto da venerarli per il resto della vita, ma per tutto un anno, ed io ne avevo solo quattordici, ho contestato una professoressa nevrotica e prevaricatrice, fino ad avvelenare a lei la vita e a creare un problema all’intera scuola e al preside. Non fui bocciato perché dal punto di vista del profitto ero inattaccabile, ma lo stesso l’anno seguente cambiai Ginnasio. E se ero così con i calzoni corti, figurarsi da adulto.
Avendo vinto un concorso, i magistrati si credono superiori all’umanità giuridicamente, socialmente e – quel ch’è peggio – moralmente. Sono i nostri bramini. La casta superiore. Gli infallibili. C’è da stupirsene se ne ho un sotterraneo orrore?
E tuttavia devo riconoscere che non sono responsabili dei loro eccessi. Come ha detto Lord Acton, “Il potere corrompe, e il potere assoluto corrompe assolutamente”. Dell’ubriacatura di arroganza di cui soffrono i nostri magistrati non sono colpevoli loro, ma quelli che gli hanno dato un’autorità sconfinata unita ad una totale impunità e alla complicità dei colleghi. Ecco perché mi permetto anch’io, come Jonathan Swift, di formulare una modesta proposta.
Non potendo cambiare le loro teste, si può cambiare il loro modo di reclutamento. Bisognerebbe stabilire che nessuno può divenire magistrato se prima non ha esercitato la professione di avvocato per almeno sette anni. Così avrà imparato come si vedono le cose quando magistrati sono altri; quando si è sicuri di avere ragione e ci si vede dar torto; quando, pur sentendosi intimamente superiore a qualcuno, questo qualcuno bisogna trattarlo con reverenza. Come se superiore fosse lui. Insomma, come nelle accademie militari, prima di imparare a comandare, bisogna imparare ad obbedire. Prima di essere tentati di maltrattare gli altri, bisogna sapere come ci si sente quando si è maltrattati. Se questo è l’unico modo per imparare il significato di empatia, lo si adotti.
I magistrati devono essere educati a non dimenticare che sono cittadini come gli altri. Fallibili e, per dirla alla clericale, peccatori. Addirittura al punto da essere chiamati a rispondere civilmente e penalmente dei loro errori, come qualunque altro professionista.
Ogni atteggiamento di superiorità castale andrebbe sanzionato, e ogni sentenza davvero aberrante dovrebbe tradursi in una macchia sul curriculum del giudice che l’ha emessa. È triste, ma oggi nessun avvocato direbbe mai: “Ho intera fiducia nella magistratura”. O meglio, lo direbbe per paura, per captatio benevolentiae, ma non lo penserebbe mai.
Del resto mi risulta che il massimo panico, essendo accusati di qualcosa, lo dimostrano gli stessi magistrati. Anche se sono innocenti. Sarebbero terrorizzati se avessero fiducia nella magistratura? Invece sanno come vanno le cose e considerano il processo una pericolosa ordalia. E questo è il colmo della sfiducia.
Attualmente non c’è speranza: bramini sono e bramini restano. Mi chiedo come mi sentirei se mia figlia – avendone una – pensasse di sposare un magistrato. Forse le chiederei: “Ma sono proprio finiti, i figli di puttana?”
Gianni Pardo, giannipardo1@gmail.com
1° agosto 23021

BRAMINIultima modifica: 2021-08-01T09:44:19+02:00da
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