Gianni Pardo

I PIEDI D’ARGILLA DEL DIRITTO PENALE

Harvey Weinstein è quel produttore cinematografico statunitense divenuto famoso come simbolo della violenza carnale anche se, con la violenza fisica. non ne ha commessa nemmeno una, per quel che ricordo. Comunque da allora il mondo intero parla di questo reato e sulla scia di quella vicenda molte donne hanno “scoperto” (anch’io, “me too”) di essere state a suo tempo violentate. A volte decenni prima. Nei giorni scorsi si è addirittura letto che Warren Beatty avrebbe “molestato” una minorenne nel 1973. Immagino che la donna, oggi almeno ultrasessantenne, non si sia ancora ripresa. Attenzione, forse non lo sapete, ma per molestare si intende anche una semplice frase di questo tipo: “La tua camicetta, con quello che c’è dentro, me la sogno la notte”. Apriti cielo. Forse è solo permesso dire: “Quando ti vedo mi viene voglia di recitare il rosario”.
Oggi si esagera fino a rendere ridicolo un reato che in realtà è assolutamente orrendo. A mio parere si potrebbe condannare ad una pena lieve il marinaio che in pizzeria ha accarezzato il sedere della cameriera, mentre dinanzi alla vera violenza carnale ogni indulgenza sarebbe fuor di luogo. Gli anni di carcere sono un’assoluta necessità.
E tuttavia questo delitto – come quelli più efferatI -, fa sorgere un dubbio: è veramente sano di mente uno chi lo commette? L’ipotesi è talmente naturale che in Corte d’Assise, quando le modalità dell’omicidio o degli omicidi sono particolarmente orrende, i giudici normalmente ordinano la perizia psichiatrica. Perizia che, a mio umile parere, dà risultati aleatori.
Partiamo dalla nostra esperienza personale. A tutti può venire la tentazione, traversando un frutteto, di cogliere una pera e mangiarla. E molti nemmeno penserebbero che si tratta di un furto. In questo senso quella del furto è una tentazione che potremmo avere tutti. Viceversa molti di noi non soltanto non commetterebbero mai una violenza carnale ma, se ci provassero, forse non avrebbero nemmeno l’erezione: a tal punto per una persona normale il contesto conta. E allora, appunto: il violentatore è una persona normale? E qui si entra in un terreno minato.
Tutto il diritto penale si regge sul concetto di responsabilità. Ecco lo schema: “Tu hai rubato, tu hai ucciso, e avresti potuto non rubare e non uccidere: dunque sei responsabile di ciò che hai fatto ed io ti punisco”. Ma nessuno ha dimostrato che sia vera la frase “avresti potuto non rubare, non uccidere”. Questa possibilità di fare o non fare – che un tempo i teologi chiamavano libero arbitrio – è un dogma per la religione (senza di esso non vi sarebbe peccato) ma è inverosimile per la scienza. Per la scienza ogni fenomeno ha una causa adeguata ed ineludibile. E dunque il determinismo psicologico è l’unica ipotesi scientificamente sostenibile.
A nulla vale la nostra sensazione di essere liberi: potrebbe essere una sensazione illusoria. Infatti scientificamente la libertà corrispondere alla possibilità di un’azione senza causa. In realtà l’uomo normale è determinato a non commettere violenza carnale, mentre il sociopatico è determinato a commetterla. E se non la commette non è perché non potrebbe commetterla ma perché ha paura del gendarme: ha una remora esterna. Il reato non viene commesso, ma non perché lui è libero, piuttosto perché è condizionato dalla paura della sanzione. Dalla prevalenza della paura sulla libidine. Tutto questo è tutt’altro che una fantasia malata. L’intero diritto penale si regge sulla responsabilità, cioè sull’assunto della libertà di agire, ma in nessun punto il codice dimostra che esista quella libertà di agire.
Bisogna dunque non condannare nessuno? Nient’affatto. Il giurista di buon senso dovrebbe dire al violentatore: “Io non so se tu sia stato o no libero di commettere il reato ma ad ogni buon conto ti condanno a sei anni di carcere (ed è il minimo della pena) sia per dare una soddisfazione alla donna che ha sofferto del tuo comportamento, sia per far sì che la prossima volta, se ci dovesse essere una prossima volta, il ricordo di quanto ti è costato questo delitto ti induca a dominare i tuoi istinti”. Insomma, se i comportamenti devianti sono determinati dalla patologia mentale, la società deve reagire in modo da creare un sistema repressivo che, nelle menti dei cittadini, anche squilibrati, costituisca sufficienti remore per proteggere la società.
La conclusione filosofica è che la “retribuzione del reato” (come la chiamano), cioè la punizione inflitta per una colpa morale, è poco plausibile. Infatti la libertà di agire non può essere dimostrata. Ci provò persino Emanuele Kant e non ci riuscì nemmeno lui, tanto che infine la mise fra “le quattro antinomie”.
Accontentiamoci pragmaticamente della protezione del diritto. L’ergastolano non deve finire i suoi giorni in carcere perché è cattivo, ma perché la società non deve temere che sia ancora in giro.

I PIEDI D’ARGILLA DEL DIRITTO PENALEultima modifica: 2022-11-13T14:02:04+01:00da
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