Gianni Pardo

DRAGHI ALLE CORDE

È umano: non solo vorremmo che il nostro campione vincesse, vorremmo anche che lo facesse con stile. Se il pubblico adorava Cassius Clay (ai miei occhi persona peggio che discutibile) era perché, sul ring, non solo vinceva, ma vinceva con facilità. Mentre i suoi avversari sembravano preoccupati – del resto, avevano ampie ragioni per esserlo – lui danzava leggero, incorporeo ed inesorabile come per virtù divina.
Ovviamente nessun campione è eterno ed anche per lui esiste un tramonto. Ma in questo caso, noi che siamo semplicemente umani, vorremmo che perdesse con lealtà, con stile, arrendendosi al nuovo astro baciato dalla Nike. Non dovrebbe mai scendere a quei trucchi del mestiere che spingono i pugili in difficoltà a chiudersi a riccio dietro gli avambracci, ad abbracciare strettamente l’avversario vincente per bloccarlo, o a sganciargli un colpo sotto la cintura. Perdere è inevitabile, ma perché così?
È in questo senso che sono molto dispiaciuto di vedere Mario Draghi in difficoltà. Non ho mai stravisto per lui, gli amici mi sono testimoni, in particolare quando pronunciò il grido di battaglia, tipo “Alea iacta est”: “Whatever it takes”. “Whatever it takes”? Anche se takes che la tempesta che evitiamo oggi potrebbe divenire un uragano domani? Anche in seguito al nostro “Whatever it takes”?
E poi non dimentico mai che chi arriva molto in alto, non per questo è più “pulito” di chi arriva non tanto in alto. La molla, chiamata ambizione, è la stessa. Anche se i risultati sono diversi.
Tuttavia Draghi aveva qualcosa di speciale. Uno stile diverso. Una serietà diversa. E per questo aveva suscitato speranze diverse. L’ho francamente creduto non soltanto un fuoriclasse, ma un uomo superiore a certe miserie. E invece gli ultimi mesi mi hanno purtroppo ridimensionato questo “italiano fuoriserie”.
È cominciata con la calma piatta di novembre e dicembre. “Lavora nell’ombra”, ho pensato. “Ha già realizzato ciò che doveva realizzare per questo scorcio d’anno”. Ma poi è cominciato il balletto dell’ambiguità: tende o no ad essere eletto alla carica di Presidente della Repubblica? In questo caso ha un piano per l’Italia e il suo governo, o vuole soltanto deporre un compito troppo difficile da adempiere per una carica più onorifica e con meno responsabilità?
Ma la sfinge, come è stato chiamato, taceva. Sempre innamorato del mio personaggio, dapprima mi dicevo: “Quant’è bravo. Lascia che gli altri si sgolino perché sa che la sua elezione a Presidente è assurda”, per i motivi che ho esposto tante volte. Ma infine è arrivato gennaio e la calma piatta governativa è continuata. Come se l’Italia non avesse nulla di cui occuparsi salvo la pandemia, e molti altri mi hanno reso chiaro (senza convincermi) che, contrariamente a quanto pensavo io, la possibilità di eleggere Draghi era molto concreta. Tanto che discutevano: ci conviene Mattarella, che ha detto che non vuol essere rieletto, o Draghi, che sarebbe un buon Presidente, ma andandosene creerebbe problemi nel governo?
Insomma, quello che per mesi era sembrano “fuori questione”, ora era il centro della questione. Ed io mi rendevo conto che non avevo capito niente. Tutti gli editorialisti mi spiegavano a chiare lettere che Draghi aveva messo la sordina al governo perché non voleva irritare nessuno e, malgrado tutti i problemi conseguenti, sperava vivamente di essere eletto Presidente della Repubblica. Cosa che mi ha confermato lui stesso quando inopinatamente e, in qualche misura, poco decentemente, è stato rieletto Mattarella, e lui stesso, credo il 31 gennaio, ha detto ai ministri: “Signori, siamo in ritardo. A che punto siete col programma del Pnrr? Entro quarantott’ore voglio mi diciate dove siete arrivati col vostro lavoro”.
Eccellente, certo. Ma eccellente se l’avesse intimato a dicembre. O appena dopo Capodanno. Dicendolo ora suona invece come se manifestasse la sua irritazione, e si dovesse sfogare con qualcuno: “E va bene, visto che non sono Presidente, e visto che non posso sfuggire ai miei doveri di Presidente del Consiglio, qui si riprende a lavorare sul serio e saranno sberle per chi batte fiacca”.
E questo, in altri termini, significa anche: “Se mi avessero eletto, e al mio posto fosse subentrato un Re Travicello che faceva andare le cose a ramengo, a me non sarebbe importato nulla. Mi interessava soltanto salire al Quirinale”. Un atteggiamento che non lo faceva certo assomigliare a quel grande campione che vince o perde con uguale eleganza.
Devo scuotere la testa. Ora capisco perché Cesare, dopo avere fatto faville nella storia come condottiero, come scrittore e come politico, al colmo del successo ha ceduto alla pericolosa e per lui mortale vanità di farsi nominare “dittatore a vita”. Perché l’ambizione, quella che spinge a conquistare le più alte vette, obbliga anche a camminare sull’orlo dei più profondi precipizi.
Gianni Pardo, giannipardo1@gmail.com
2 febbraio 2022

DRAGHI ALLE CORDEultima modifica: 2022-02-03T11:23:25+01:00da
Reposta per primo quest’articolo