Gianni Pardo

LE TERMOPILI A SCUOLA

Il 20 febbraio un professore di religione di Bra (Cuneo), Carlo Zonin, cinquantenne, timido, ammodo, impegnato nel sociale, con 32 anni di carriera scolastica, stanco delle angherie subite, in un raptus ha volontariamente investito con l’auto due studenti di 17 e 18 anni, mandandoli in ospedale. L’episodio può essere commentato con i seguenti ricordi di trent’anni fa.

LE TERMOPILI A SCUOLA

Ricordi post-sessantottini

Molti anni fa vinsi un concorso nazionale per l’insegnamento nei licei: lingua e letteratura francese. Questa cattedra è caratteristica per due ragioni: agli esami, bisognerebbe conoscere benissimo la lingua – l’esame si svolge infatti in francese – e ovviamente la grammatica, anche in quelle parti che i francesi non conoscono. Bisognerebbe conoscere la pronuncia della lingua nei secoli scorsi; tutta la storia; tutta la letteratura; tutta la “civiltà” (per esempio, come funziona il métro a Parigi o quali regioni producono vino e quali no) e inoltre avere accettabili nozioni di letteratura inglese, tedesca, spagnola e russa. Il supergenio che fosse preparato in tutte queste cose poi avrebbe un lauto stipendio di oltre mille euro al mese.

La seconda caratteristica è che l’insegnante ha le classi dalla prima alla quinta: il professore ha dunque tutto dunque il tempo di conoscere i suoi alunni ed essere ben conosciuto da loro. Tuttavia, nel corso del primo anno d’insegnamento, c’è una pericolosa eccezione: la quinta classe, composta di ragazzoni che qualche mese dopo, in seguito alla benedizione dell’esame di Stato, vanno all’università. Con costoro non si ha il tempo di conoscersi e viceversa loro sanno che il professore non avrà l’arma del voto finale. Inoltre – in quegli anni successivi al Sessantotto – gli alunni sentivano di potersi permettere qualunque cosa e io non avevo avuto il tempo di guadagnarmi il loro personale rispetto.

Le cose si misero subito male. La mia severità fece scandalo e la classe si coalizzò contro di me. Inoltre sbalordivano ed indignavano i miei voti inferiori al quattro o al tre, e poco importava che fossero meritati. Tanto che una ragazza andò a protestare dal Preside e costui ebbe il coraggio di venire a protestare, in piena classe e dinanzi a quei trentatré energumeni: non potevo modificare quel voto troppo basso? mi chiese. Gli risposi secco che, dal punto di vista didattico, in quella classe, dopo Dio comandavo io. Ora non avevo più solo la classe, contro di me, ma anche il Preside.

I giorni andavano avanti alla meno peggio, quando alcuni ragazzi, in fondo all’aula, per sfregio, si misero a giocare a carte durante la lezione. Li vidi e feci rapporto: forse il solo che abbia mai scritto in quel liceo. Il risultato, per me inatteso, fu che il Preside non prese alcun provvedimento. A parte il fatto che era un vile, quella volta presumo abbia fatto questo ragionamento: il professore è troppo severo (fascista), dunque devo sostenere gli studenti (proletari) che fanno l’unica Rivoluzione d’Ottobre che si possono permettere. E poi qualche rivincita doveva pur prendersela.

Stavolta la situazione era disperata. Io non ho mai avuto il bisogno di alzare la voce, ho sempre avuto un ottimo rapporto con gli alunni, ma stavolta mi trovavo esposto al ridicolo: i ragazzi erano autorizzati a mancarmi di rispetto. Non avevo la loro stima (umana, quella professionale neanche loro si permettevano di metterla in dubbio), non avevo il sostegno del Preside, non avevo il sostegno delle famiglie. Ero solo e disarmato.

La volta seguente entrai in classe, mi sedetti in cattedra come gli altri giorni, aprii un libro e mi misi a leggere. I ragazzi credettero che stessi preparando la lezione e si misero a parlare tra loro, ma dopo un quarto d’ora io stavo ancora leggendo. E anche dopo mezz’ora. Alla fine dell’ora mi alzai ed andai via.

Quando ci fu di nuovo lezione, ed aprii il libro, i ragazzi accolsero la novità con gioia: un’ora in meno di lezione! Solo che io continuai a leggere quella volta, e la volta seguente, e la volta seguente ancora. I ragazzi smisero di ridere. Sapevano che, salvo eccezioni, la lingua e la letteratura francese erano materia d’esami e si resero conto che la scuola non li preparava più. Finirono con l’andare dal preside e questi da me. Io gli dissi che se i ragazzi erano autorizzati a giocare a carte in classe, io ero autorizzato a leggere e certo non avrei aperto bocca per chi non mi ascoltava. Lui, contrito, insisteva a dirmi che i ragazzi mi chiedevano scusa, mi pregavano di riprendere a fare lezione, bisognava che li perdonassi (ma era lui, che non perdonavo!) e chiedeva insomma che tutto rientrasse nell’ordine. Quell’episodio, dall’inizio alla fine, doveva essere dimenticato.

Effettivamente lo fu. I ragazzi si resero conto di aver perso il braccio di ferro e la classe divenne come tutte le altre. Ma io mi chiedevo come potesse funzionare una scuola così, dove solo professori lassisti o capaci di vincere da soli contro tutti riuscivano a sopravvivere.

Gianni Pardo, giannipardo@libero.it

22 febbraio 2009

LE TERMOPILI A SCUOLAultima modifica: 2009-02-24T17:53:57+01:00da
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