UN’ISTITUZIONE ODIOSA

di Dino Panigra

Sulla scuola la penso come Pinocchio: la odio. Come odio il suo gemello eterozigoto: il carcere. E per le stesse ragioni. Quelle due istituzioni sono il tempio della costrizione e per giunta il carcere è a tempo pieno: ma non è l’unica differenza. Per evitare il carcere mi è bastato non pestare i piedi ai Carabinieri – per altro persone simpatiche – mentre per la scuola, prima ancora che avessi raggiunto l’età della ragione, m’è arrivata la cartolina/precetto e sono stato arruolato.
Quindici anni di ferma, peggio che in marina: due di asilo, cinque di scuola elementare otto di scuola media. Forse soltanto nelle compagnie di ventura si rimaneva tanto a lungo. E sapete perché ci son rimasto quindici anni? Semplicemente perché l’ho odiata così cordialmente che l’idea di ripetere l’anno corrispondeva a quella di stare un anno in più fra i banchi. Odiavo lo studio, ma la scuola era peggio. Dunque mai una bocciatura. Anzi, per prudenza, nemmeno un rinvio a settembre. Quasi me ne vergogno.
Dopo aver detto che odio la scuola quanto Pinocchio ho anche dimostrato che, di fatto, secondo i metri comuni, sarei stato un bravo alunno. È una contraddizione? Nient’affatto. Che la scuola sia odiosa – con le sue costrizioni, con le sue interrogazioni, col suo conformismo, col suo enciclopedismo (a me della chimica non fregava assolutamente niente) e via dicendo – non vuol dire che non sia necessaria. È solo seminando nel ragazzo tutte le nozioni che si apprendono fra i banchi che si ha la formazione culturale e mentale necessaria per affrontare gli studi superiori. La prova di questo assunto è che, a quanto dicono, i migliori studenti, anche di facoltà scientifiche, vengono dal liceo classico. Non perché saprebbero parlarvi della questione omerica o darvi persino una definizione di “entelechia” (anche se ne dubito), quanto perché studiare letteratura, filosofia, latino e matematica apre alla riflessione e all’astrazione più di quanto non facciano ragioneria, estimo o merceologia.
Così, dopo avere fatto alla scuola una dichiarazione di odio, le faccio una dichiarazione, se non d’amore, di stima. Ammetto senza esitazione che è necessaria. Essa deve rimanere odiosa, non soltanto nel senso che deve imporre tutte le costrizioni di cui sopra, ma anche nel senso che deve insegnare molto, bocciare senza pietà i somari e stangare, fino ad espellerli, tutti gli indisciplinati. Il concetto è semplice: dal momento che è inevitabilmente odiosa, non è meglio che sia odiosa e utile, invece di essere odiosa e inutile, come mi sembra oggi?
Solo così si spiega che in passato abbia creato soggetti capaci ancora oggi di scherzare con i coetanei (altrettanti Matusalemme) a base di battute in latino, nozioni di storia, brani di Leopardi mandati a memoria (chiedeteli a un liceale di oggi e vedrete) e via dicendo. Essi celebrano un patrimonio di conoscenze comuni che ne fa dei mostri, rispetto alla gioventù d’oggi.
Acquisire una certa cultura è una grande fatica, ma possederla è poi un piacere per la vita. Oltre che uno strumento per orientarsi nella realtà. Insomma, devo confessarlo: ho odiato la scuola, ma non ho odiato il prodotto che mi ha fornito e alcuni professori, addirittura, hanno un monumento, nella mia memoria.
Vuoi vedere che forse non odio la scuola quanto dovrei?

UN’ISTITUZIONE ODIOSAultima modifica: 2023-03-26T14:12:31+02:00da gianni.pardo
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7 pensieri su “UN’ISTITUZIONE ODIOSA

  1. Papini? Anch’io ho letto Papini, da giovane. E non me ne pento. Scrittore di razza, ma scrittore, non maestro di vita o di teologia. Così come Sartre è stato pure lui un eccellente scrittore (e drammaturgo) ma non certo un politologo. Piuttosto, una riflessione che propongo agli amici è la seguente: non è per caso tutti i grandi nomi del XX Secolo siano per caso un po’ sbiaditi? Sul momento sembravano giganti, e oggi non li legge nessuno o, ancora peggio, nessuno li citi o li ricordi? Siamo ancora ad echeggiare le tante stupidaggini contenute nei Promessi Sposi, e nessuno che ci citi mai un pensiero di tutti quelli che un tempo ci furono compagni di viaggio, e sul momento sembravano giganteggiare?
    Faccio un favore a Sartre e cito quattro parole sue: “L’Enfer c’est les autres”, l’Inferno sono gli altri. Ma non credo questo detto riuscirà a salvare il XX Secolo.
    P.S. Involontaria testimonianza: mi accorgo di non avere letto lo scritto di Papini sulla scuola. Commento troppo lungo, per i miei standard. Chiedo scusa.

  2. @ Sergio
    Anch’io, da giovane un po’ ribelle, ho letto con piacere molti scritti di Papini. Poi, ad un certo punto, ho cominciato a riflettere sulle sue contraddizioni (fascista ma anti-nazista …) e sui suoi rapidi cambi di bandiera (da ateo e anticlericale a cattolico convinto; da antirazzista a razzista e anti-ebrei; da acceso bellicista alla vergogna per essere stato interventista; da accademico d’Italia nominato dal Duce al rifiuto della nomina a Presidente dell’Accademia d’Italia della Repubblica di Salò, carica divenuta vacante dopo l’uccisione di Gentile; da cattolico tradizionalista ad autore de Il diavolo).
    Certamente, ha rischiato anche lui di fare la fine di Gentile: i comunisti e i partigiani delle Brigate Garibaldi non gli perdonavano i trascorsi da fascista e lo ritenevano colluso con la RSI.

  3. @ Pier Paolo Falcone

    “– dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, braccato dai partigiani, si rifugia in un convento e diventa terziario francescano; si nasconde poi nel vescovado di Arezzo, e infine viene “salvato” dagli Americani;
    – dopo la Seconda Guerra mondiale, rischia la scomunica per eresia.”

    Non sapevo che i partigiani l’avessero ricercato (immagino per fargliela pagare: Papini ha rischiato di fare la fine di Gentile?).

    La scomunica la rischiò per il suo “Il Diavolo” in cui adombrava il perdono finale di Dio alla fine dei tempi (già immaginato da Origene nel III secolo!). Ciò contrastava con l’eternità delle pene della dottrina cattolica. Almeno in questo caso Papini fu progressista e umano. La Chiesa ha dovuto attendere Bergoglio per cancellare questo obbrobrio (anche se l’ha fatto in modo informale, chiacchierando con Scalfari …).

  4. @ Pier Paolo Falcone

    D’accordo, l’articolo di Papini è un po’ lungo, dovrei scusarmi, ma è in parte anche divertente e alcune sue osservazioni sono secondo me azzeccatissime (lasciamo perdere quali, altrimenti il discorso si fa troppo lungo).
    Quanto a Papini è sicuramente un personaggio controverso e criticabile. Da ragazzo lo divoravo, oggi lo trovo illeggibile. Se riapro la sua Storia di Cristo dopo un paio di frasi richiudo il libro, per carità. Dopo la conversione ha perduto verve e smalto, peccato. E tuttavia qualcosa di buono ha pur fatto e scritto, per es. questo testo sulla scuola. Ovviamente si può dissentire da Papini anche su questo scritto un po’ troppo sopra le righe. Il suo appello per chiudere le scuole non fu accolto – per forza, forse anche per fortuna. Perché la scuola malgrado tutto qualche merito lo ha, è probabilmente un’istituzione insostituibile. Ai tempi di Papini però – e anche miei, anni Cinquanta-Sessanta – era fortemente repressiva, non solo in Italia (vedi anche “Il mondo di ieri” di Stefan Zweig).

  5. Al di là della lunghezza del brano di Papini, mi permetto di ricordare alcune notizie sul suo conto:
    – diploma di maestro nel 1899, e poi insegnante di lingua italiana all’Istituto Inglese di Firenze;
    – filosofo “pragmatista”, acceso interventista (Prima Guerra mondiale), poi pentito del suo interventismo (lui, intanto, al fronte non c’era andato: era stato riformato);
    – si converte al cattolicesimo nel 1921, poi diventa fascista; nel 1938 è uno dei firmatari del Manifesto della razza (quattro anni prima aveva contestato il razzismo);
    – dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, braccato dai partigiani, si rifugia in un convento e diventa terziario francescano; si nasconde poi nel vescovado di Arezzo, e infine viene “salvato” dagli Americani;
    – dopo la Seconda Guerra mondiale, rischia la scomunica per eresia.
    Quindi Papini ha collezionato giudizi controversi per i suoi cambi estremi di posizione. Non il massimo della coerenza.
    Tornando al suo scritto, merita riflessione la frase “Fino a sei anni l’uomo è prigioniero di genitori, bambinaie e istitutrici; dai sei ai ventiquattro è sottoposto a genitori e professori; dai ventiquattro è schiavo dell’ufficio, del caposezione, del pubblico e della moglie.” Quindi l’uomo di cui lui parla (sia bambino, giovane o adulto) è solo il maschio, tant’è che dopo i ventiquattro anni diventa schiavo pure della moglie. Forse si può concludere che la scuola va bene per le femmine?

  6. “Chiudiamo le scuole”

    di Giovanni Papini

    1 giugno 1914

    Diffidiamo de’ casamenti di grande superficie, dove molti uomini si rinchiudono o vengono rinchiusi. Prigioni, Chiese, Ospedali, Parlamenti, Caserme, Manicomi, Scuole, Ministeri, Conventi. Codeste pubbliche architetture son di malaugurio: segni irrecusabili di malattie generali. Difesa contro il delitto – contro la morte – contro lo straniero – contro il disordine – contro la solitudine – contro tutto ciò che impaurisce l’uomo abbandonato a sé stesso: il vigliacco eterno che fabbrica leggi e società come bastioni e trincee alla sua tremebondaggine.
    Vi sono sinistri magazzini di uomini cattivi – in città e in campagna e sulle rive del mare – davanti a’ quali non si passa senza terrore.
    Lì son condannati al buio, alla fame, al suicidio, all’immobilità, all’abbrutimento, alla pazzia, migliaia e milioni di uomini che tolsero un po’ di ricchezza a’ fratelli più ricchi o diminuirono d’improvviso il numero di questa non rimpiangibile umanità. Non m’intenerisco sopra questi uomini ma soffro se penso troppo alla loro vita – e alla qualità e al diritto de’ loro giudici e carcerieri. Ma per costoro c’è almeno la ragione della difesa contro la possibilità di ritorni offensivi verso qualcun di noialtri.
    Ma cosa hanno mai fatto i ragazzi, gli adolescenti, i giovanotti che dai sei fino ai dieci, ai quindici, ai venti, ai ventiquattro anni chiudete tante ore del giorno nelle vostre bianche galere per far patire il loro corpo e magagnare il loro cervello? Gli altri potete chiamarli – con morali e codici in mano – delinquenti ma quest’altri sono, anche per voi, puri e innocenti come usciron dall’utero delle vostre spose e figliuole. Con quali traditori pretesti vi permettete di scemare il loro piacere e la loro libertà nell’età più bella della vita e di compromettere per sempre la freschezza e la sanità della loro intelligenza?
    Non venite fuori colla grossa artiglieria della retorica progressista: le ragioni della civiltà, l’educazione dello spirito, l’avanzamento del sapere… Noi sappiamo con assoluta certezza che la civiltà non è venuta fuor dalle scuole e che le scuole intristiscono gli animi invece di sollevarli e che le scoperte decisive della scienza non son nate dall’insegnamento pubblico ma dalla ricerca solitaria disinteressata e magari pazzesca di uomini che spesso non erano stati a scuola o non v’insegnavano.
    Sappiamo ugualmente e con la stessa certezza che la scuola, essendo per sua necessità formale e tradizionalista, ha contribuito spessissimo a pietrificare il sapere e a ritardare con testardi ostruzionismi le più urgenti rivoluzioni e riforme intellettuali.
    Soltanto per caso e per semplice coincidenza – raccoglie tanta di quella gente! – la scuola può essere il laboratorio di nuove verità.
    Essa non è, per sua natura, una creazione, un’opera spirituale ma un semplice organismo e strumento pratico. Non inventa le conoscenze ma si vanta di trasmetterle. E non adempie bene neppure a quest’ultimo ufficio – perché le trasmette male o trasmettendole impedisce il più delle volte, disseccando e storcendo i cervelli ricevitori, il formarsi di altre conoscenze nuove e migliori.
    Le scuole, dunque, non son altro che reclusori per minorenni istruiti per soddisfare a bisogni pratici e prettamente borghesi.
    Quali?
    Per i genitori, nei primi anni, sono il mezzo più decente per levarsi di casa i figliuoli che danno noia. Più tardi entra in ballo il pensiero dominante della “posizione” e della “carriera”.
    Per i maestri c’è soprattutto la ragione di guadagnarsi pane, carne e vestiti con una professione ritenuta “nobile” e che offre, in più, tre mesi di vacanza l’anno e qualche piccola beneficiata di vanità. Aggiungete poi a questo la sadica voluttà di potere annoiare, intimorire e tormentare impunemente, in capo alla vita, qualche migliaio di bambini o di giovani.
    Lo Stato mantiene le scuole perché i padri di famiglia le vogliono e perché lui stesso, avendo bisogno tutti gli anni di qualche battaglione di impiegati, preferisce tirarseli su a modo suo e sceglierli sulla fede di certificati da lui concessi senza noie supplementari di vagliature più faticose.
    Aggiungete che sulle scuole ci mangiano ispettori, presidi, bidelli, preparatori, assistenti, editori, librai, cartolai e avrete la trama completa degli interessi tessuti attorno alle comunali e regie e pareggiate case di pena.
    Nessuno – fuorché a discorsi – pensa al miglioramento della nazione, allo sviluppo del pensiero e tanto meno a quello cui si dovrebbe pensar di più: al bene dei figliuoli.
    Le scuole ci sono, fanno comodo, menano a qualche guadagno: ficchiamoci maschi e femmine e non ci pensiamo più.
    L’uomo, nelle tre mezze dozzine d’anni decisive nella sua vita (dai sei ai dodici, dai dodici ai diciotto, dai diciotto ai ventiquattro), ha bisogno, per vivere, di libertà.
    Libertà per rafforzare il corpo e conservarsi la salute, libertà all’aria aperta: nelle scuole si rovina gli occhi, i polmoni, i nervi (quanti miopi, anemici e nevrastenici possono maledire giustamente le scuole e chi l’ha inventate!)
    Libertà per svolgere la sua personalità nella vita aperta dalle diecimila possibilità, invece che in quella artificiale e ristretta delle classi e dei collegi.
    Libertà per imparare veramente qualcosa perché non s’impara nulla di importante dalle lezioni ma soltanto dai grandi libri e dal contatto personale colla realtà. Nella quale ognuno s’inserisce a modo suo e sceglie quel che gli è più adatto invece di sottostare a quella manipolazione disseccatrice e uniforme ch’è l’insegnamento.
    Nelle scuole, invece, abbiamo la reclusione quotidiana in stanze polverose piene di fiati – l’immobilità fisica più antinaturale – l’immobilità dello spirito obbligato a ripetere invece che a cercare – lo sforzo disastroso per imparare con metodi imbecilli moltissime cose inutili – e l’annegamento sistematico di ogni personalità, originalità e iniziativa nel mar nero degli uniformi programmi. Fino a sei anni l’uomo è prigioniero di genitori, bambinaie e istitutrici; dai sei ai ventiquattro è sottoposto a genitori e professori; dai ventiquattro è schiavo dell’ufficio, del caposezione, del pubblico e della moglie; tra i quaranta e i cinquanta vien meccanizzato e ossificato dalle abitudini (terribili più d’ogni padrone) e servo, schiavo, prigioniero, forzato e burattino rimane fino alla morte.
    Lasciateci almeno la fanciullezza e la gioventù per godere un po’ d’igienica anarchia!
    L’unica scusa (non mai bastante) di tale lunghissimo incarceramento scolastico sarebbe la sua riconosciuta utilità per i futuri uomini. Ma su questo punto c’è abbastanza concordia fra gli spiriti più illuminati. La scuola fa molto più male che bene ai cervelli in formazione.
    Insegna moltissime cose inutili, che poi bisogna disimparare per impararne molte altre da sé.
    Insegna moltissime cose false o discutibili e ci vuol poi una bella fatica a liberarsene – e non tutti ci arrivano.
    Abitua gli uomini a ritenere che tutta la sapienza del mondo consista nei libri stampati.
    Non insegna quasi mai ciò che un uomo dovrà fare effettivamente nella vita, per la quale occorre poi un faticoso e lungo noviziato autodidattico.
    Insegna (pretende d’insegnare) quel che nessuno potrà mai insegnare: la pittura nelle accademie; il gusto nelle scuole di lettere; il pensiero nelle facoltà di filosofia; la pedagogia nei corsi normali; la musica nei conservatori.
    Insegna male perché insegna a tutti le stesse cose nello stesso modo e nella stessa quantità non tenendo conto delle infinite diversità d’ingegno, di razza, di provenienza sociale, di età, di bisogni ecc.
    Non si può insegnare a più d’uno. Non s’impara qualcosa dagli altri che nelle conversazioni a due, dove colui che insegna si adatta alla natura dell’altro, rispiega, esemplifica, domanda, discute e non detta il suo verbo dall’alto.
    Quasi tutti gli uomini che hanno fatto qualcosa di nuovo nel mondo o non sono mai andati a scuola o ne sono scappati presto o sono stati “cattivi” scolari. (I mediocri che arrivano nella vita a fare onorata e regolare carriera e magari a raggiungere una certa fama sono stati spesso i “primi” della classe).
    La scuola non insegna precisamente quello di cui si ha più bisogno: appena passati gli esami e ottenuti i diplomi bisogna rivomitare tutto quel che s’è ingozzato in quei forzati banchetti e ricominciare da capo.
    Vorrei che i nostri dottori della legge, per i quali la scuola è il tempio delle nuove generazioni e i manuali approvati sono i sacri testamenti della religion pedantesca, leggessero almeno una volta il saggio di Hazlitt sull’Ignoranza delle persone istruite, che comincia così: “La razza di gente che ha meno idee è formata da quelli che non son altro che autori o lettori. È meglio non saper né leggere né scrivere che saper leggere e scrivere, e non essere capaci d’altro”.
    E più giù: “Chiunque è passato per tutti i gradi regolari d’una educazione classica e non è diventato stupido, può vantarsi d’averla scappata bella”.
    Credo che pochissimi potrebbero – se sapessero giudicarsi da sé – vantarsi di una tal resistenza. E basta guardarsi un momento attorno e vedere quale sia la media intelligenza de’ nostri impiegati, dirigenti, professionisti e governanti per convincersi che Hazlitt ha centomila ragioni. Se c’è ancora un po’ d’intelligenza nel mondo bisogna cercarla fra gli autodidatti o fra gli analfabeti.
    La scuola è così essenzialmente antigeniale che non ristupidisce solamente gli scolari ma anche i maestri. Ripeti e ripeti anni dopo anni le medesime cose, diventano assai più imbecilli e immalleabili di quel che fossero al principio – e non è dir poco.
    Poveri aguzzini acidi, annoiati, anchilosati, vuotati, seccati, angariati, scoraggiati che muovon le loro membra ufficiali e governative soltanto quando si tratta di aver qualche lira di più tutti i mesi!
    Si parla dell’educazione morale delle scuole. Gli unici risultati della convivenza tra maestri e scolari è questa: servilità apparente e ipocrisia dei secondi verso i primi e corruzione reciproca tra compagni e compagni.
    L’unico testo di sincerità nelle scuole è la parete delle latrine.
    Bisogna chiuder le scuole – tutte le scuole. Dalla prima all’ultima. Asili e giardini d’infanzia; collegi e convitti; scuole primarie e secondarie; ginnasi e licei; scuole tecniche e istituti tecnici; università e accademie; scuole di commercio e scuole di guerra; istituti superiori e scuole d’applicazione; politecnici e magisteri. Dappertutto dove un uomo pretende d’insegnare ad altri uomini bisogna chiuder bottega. Non bisogna dar retta ai genitori in imbarazzo né ai professori disoccupati né ai librai in fallimento. Tutto s’accomoderà e si quieterà col tempo. Si troverà il modo di sapere (e di saper meglio e in meno tempo) senza bisogno di sacrificare i più begli anni della vita sulle panche delle semiprigioni governative.
    Ci saranno più uomini intelligenti e più uomini geniali; la vita e la scienza andranno innanzi anche meglio; ognuno se la caverà da sé e la civiltà non rallenterà neppure un secondo. Ci sarà più libertà, più salute e più gioia.
    L’anima umana innanzi tutto. È la cosa più preziosa che ognuno di noi possegga. La vogliamo salvare almeno quando sta mettendo le ali. Daremo pensioni vitalizie a tutti i maestri, istitutori, prefetti, presidi, professori, liberi docenti e bidelli purché lascino andare i giovani fuor dalle loro fabbriche privilegiate di cretini di stato. Ne abbiamo abbastanza dopo tanti secoli.
    Chi è contro la libertà e la gioventù lavora per l’imbecillità e per la morte.

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