UNA PROVOCAZIONE PER GLI AMICI

UNA BARZELLETTA (MACABRA) COMMENTATA
Sul Foglio del 7 dicembre 2000 un giornalista riferisce questa barzelletta. “Marito e moglie vengono coinvolti in un incidente stradale. L’uomo esce illeso, la donna finisce in ospedale. Reparto chirurgia d’urgenza. Si apre la porta della sala operatoria e il marito si precipita dal chirurgo. ‘Dottore, mi dica qualcosa, si salverà?’. ‘Sì, si salverà, però…’ ‘Però, cosa?’ chiede il marito angosciato. ‘Però dovrà passare la vita in carrozzella. Sa, abbiamo dovuto amputarle le gambe’. Il marito singhiozza. ‘Su, su, si faccia coraggio – dice il dottore – purtroppo dovrà rassegnarsi a imboccarla per tutta la vita. Sa, abbiamo dovuto amputarle anche le braccia’. Il marito, disperato, scoppia in un pianto dirotto. ‘Su, su, non faccia così – riprende a confortarlo il dottore – purtroppo devo dirle che farà anche fatica a guardarla in faccia, perché sa, sua moglie ha il viso completamente sfigurato’. Grida e strepiti di disperazione del pover’uomo. A quel punto il dottore sorride, gli dà una pacca sulla spalla e dice: ‘Ma va là, stavo solo scherzando, sua moglie è morta’ ”.

Se la storiella ha fatto sorridere, non c’è ragione di vergognarsene: le barzellette, per programma, non tengono conto né della morale né della decenza. Se invece non si è neppure sorriso, poco male: non tutte le barzellette sono divertenti. Ed è fuor di luogo discuterne seriamente: sarebbe come fare l’analisi logica dell’abbaiare di un cane. Rimane tuttavia la possibilità di prenderle a pretesto per una riflessione.
La marcia di avvicinamento al problema che qui si vuole discutere avverrà per gradi.
La prima domanda potrebbe essere: che cosa preferiremmo, dopo un incidente, morire, o rimanere senza gambe, senza braccia e senza faccia? Al quesito ognuno può rispondere come vuole: e che poi mantenga la sua preferenza, quando fosse un rottame ancora vivo in ospedale, è da vedersi. Ma la domanda che interessa non è questa. Si passa dunque alla seconda: che cosa preferiremmo, per una persona cara, che rimanesse viva, in quelle condizioni, o che morisse? La risposta obbligata è “che rimanesse viva”: rispondendo diversamente, una persona normale si sentirebbe colpevole di omicidio. Infine, ecco per ultima la vera domanda: se, nelle condizioni dette, la persona cara fosse già morta, saremmo sinceri nell’esserne dispiaciuti?
Bisogna sottolineare ripetutamente e con estrema chiarezza che il dato di partenza è l’avvenuta morte della persona. Questo significa che il nostro desiderio, il nostro commento, il nostro dolore o il nostro sollievo, o qualunque altro possibile sentimento, non avranno la minima influenza su quella persona. Semplicemente perché non c’è più. È assolutamente intangibile. Un’altra cosa da sottolineare è che, se dichiarassimo: “forse è stato meglio così, il poverino o la poverina si sono evitati anni di sofferenza”, questo non avrebbe nessuna influenza causale su quella morte. Non sarebbe morta per nostra volontà come non sarebbe sopravvissuta se solo avessimo sperato con tutte le nostre forze che sopravvivesse, perfino con l’encefalogramma piatto. Il fatto è già avvenuto. Si sta discutendo esclusivamente di qualcosa che riguarda noi, i sopravvissuti. E a queste condizioni, finalmente, si potrà dare la propria risposta alla domanda.
Personalmente – salvo vigliaccherie imprevedibili – preferirei morire in una volta sola, durante un incidente, che a rate. Dopo anni vissuti da rottame umano a carico del prossimo. E preferirei che altrettanto avvenisse alle persone che amo. Ho una concezione dionisiaca, non sacrale, della vita, e se essa non offre più gioia, chiedo con Lucrezio, a me stesso come a tutti: cur non ut plenus vitae conviva recedis aequo animoque capis securam, stulte, quietem? O stolto, perché non ti ritrai dalla vita come un commensale sazio e non accetti con animo sereno una quiete sicura?
Gianni Pardo, giannipardo@libero.it
12 dicembre 2007

UNA PROVOCAZIONE PER GLI AMICIultima modifica: 2022-12-02T10:05:38+01:00da gianni.pardo
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5 pensieri su “UNA PROVOCAZIONE PER GLI AMICI

  1. Certo, se c’e’ la sofferenza fisica, specie se terribile e continua, come in alcuni casi di cancro, allora la cosa e’ ben differente. Si organizza un viaggetto in Svizzera.
    Mi ricordo di un manuale di “frasi utili” dall’inglese all’italiano, scritto per turisti americani in visita al Bel Paese. Il solito “bring me the bill = mi porti il conto” , “Please, how to go to Piazza Venezia = Mi scusi, come vado a Piazza Venezia?”.
    Bene, una delle frasi era: “I have been mangled in a car accident, please shoot me”. In italiano, “Sono stato maciullato in un incidente stradale, per favore sparatemi”.
    Ma suppongo che fosse stata aggiunta solo per (macabro) umorismo. 😀

  2. Sono d’accordo con le conclusioni del dott. Pardo, anche ci arrivo per una via un po’ differente.
    Parecchi anni fa è morta mia madre, orribilmente devastata dal male (cancro) e tra indicibili sofferenze, durate quasi un anno. Purtroppo non ha mai perso il cosiddetto “senno”. Essendo cattolica, la sua preghiera ricorrente era “Signore, prendimi”. Io, che speravo che non morisse, mi sono ad un certo punto vergognato del mio insensato e crudele egoismo.
    Quindi la questione, a mio parere, non è la demenza, o il poter ancora bere un bicchiere di buon vino, o l’essere diventato un parassita: è la necessità di uscire da uno stato di sofferenza insostenibile. E’ valso per mia madre e spero che valga anche per me.

  3. La mia scelta sarebbe di rimanere in vita, quasi a qualunque costo. Se sono cieco, o paralizzato, posso sempre apprezzare una parmigiana di melanzane o un bicchiere di buon vino. E poi ci sono sempre Mozart e Beethoven. Certo, ci sono altre considerazioni, l’aver bisogno di altri per le funzioni fisiologiche. Ma ci si abitua a tutto, anche al parassitismo. Riguardo alla demenza, non credo che me ne renderei conto, dunque non soffrirei pensando ad un passato migliore.

  4. Posso accettare di vivere con qualche mutilazione fisica, purché non tale da ridurmi a un rottame. Non potrei invece accettare di vivere demente dopo aver vissuto nella pienezza delle mie facoltà intellettive.
    Meglio la quiete sicura di Lucrezio.

  5. “La risposta obbligata è “che rimanesse viva””. Non capisco perché: la sua permanenza in vita sarebbe una tragedia per lui in primissimo luogo e per me che lo vedrei soffrire. La risposta ultima è: sarei dispiaciuta per la mia perdita, non certo per lui. Le condizioni della sua morte sarebbero quasi ininfluenti sul mio dolore.

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