L’ASSURDITA’ DEL SALARIO MINIMO

Che cos’è il salario? A mio parere, è una parte della ricchezza prodotta lavorando alle dipendenze di un terzo. E se è così la sua misura incontra un limite invalicabile nella percentuale di ricchezza prodotta. Su questo argomento esisteranno chissà quanti tomi, ma per sapere che l’acqua bollente scotta non è necessario consultare grandi medici.
Ecco lo schema. Qualcuno ha l’idea che, producendo un certo oggetto, potrebbe guadagnare. E si mette a fabbricare scarpe. Ciò significa che, dedotte tutte le spese, gli rimane una quota di ricchezza che gli consente di vivere. Poi si accorge che se invece di lavorare da solo avesse cinque operai guadagnerebbe di più e allora li assume. Ma anche in questo caso in tanto si avrà quell’assunzione, in quanto l’imprenditore, dedotte tutte le spese e le altre passività, ora guadagni più di prima. Se invece guadagnasse quanto prima, o meno di prima, non assumerebbe nessuno.
Chiariamo con dei numeri. Se l’operaio produce 100 di ricchezza, e 80 sono le spese (tutto compreso), la ricchezza netta prodotta sarà 20. Se il datore di lavoro pagasse all’operaio 100, non guadagnerebbe niente, assumendolo. E dunque non l’assumerebbe. Se lo pagasse 80, si terrebbe il 20% di ricchezza netta prodotta; se gli pagasse una somma intermedia tra 80 e 100 condividerebbe con lui una parte della ricchezza netta prodotta, ma in nessun caso potrebbe dargli 100 o più di 100. Questo potrà farlo (con danno per la collettività) soltanto lo Stato, perché – fruendo del potere di imporre tasse e imposte – può anche operare in perdita. Ma in nessun caso potrà farlo il privato. Dunque la discussione sul quantum del salario riguarda soltanto la suddivisione della ricchezza netta prodotta.
Se tutto questo è vero, l’idea di imporre un quantum di paga per rescriptum principis è assurda. La morale potrebbe dire che il livello idealmente corretto del salario sia il 90%, intendendosi che, dedotte le spese, fra cui ovviamente le paghe degli operai, datore di lavoro e prestatore d’opera fanno a metà della ricchezza netta prodotta. Si può anche immaginare che il datore di lavoro sia abbastanza rapace per tenersi tutta la ricchezza netta prodotta, o tanto generoso (o folle) da dare 19 ventesimi della ricchezza netta prodotta, ma in nessun caso gli potrà dare di più. E allora che senso ha il salario minimo?
Dire che il salario minimo è di otto euro l’ora (per ipotesi) corrisponde a dire che “qualunque lavoro rende al datore di lavoro almeno nove euro l’ora”. E dove sta scritto? Se, di fatto, esso rende sempre per ipotesi 6 euro l’ora, e il datore di lavoro deve pagare otto, ovviamente rinuncia ad assumere. Ma se un uomo, pur di nutrire la sua famiglia, è disposto a guadagnare sei euro l’ora, in base a quale principio lo Stato dovrebbe vietare quel rapporto di lavoro? O vuole costringere operaio e imprenditore al lavoro nero? Il divieto danneggia sia il datore di lavoro, sia l’operaio, sia infine lo Stato, che non percepisce un euro di imposte.
Non solo. Se un operaio, in un’impresa ad alta tecnologia, rende al datore di lavoro quindici euro l’ora, gliene vogliamo dare soltanto otto perché quello è il salario minimo? Certo che no. E come è giusto dargli di più se il suo lavoro rende più di otto euro l’ora, non è altrettanto giusto dargli di meno, se il suo lavoro rende meno di otto euro l’ora?
L’errore (lo riconobbe lo stesso autore del concetto, Luciano Lama) è quello di ritenere che il salario sia una variabile indipendente dalla ricchezza prodotta, tanto che se ne può determinare il quantum a priori, per legge. Ed anche aumentarlo a piacere, per legge, come in modo geniale suggerisce in questi giorni Maurizio Landini. In realtà il salario minimo è una fantasia che è venuta in mente a qualcuno che di mestiere faceva l’oboista in un’orchestra, l’abate di un convento di cappuccini, il professore di filosofia in un liceo o il bigliettaio di tram, ma certo non a qualcuno che ha fondato e diretto un’impresa produttiva.
Il lavoro non è un’attività morale con una ricompensa determinata moralmente. A molti non piace che lo si consideri una merce sottoposta alle leggi della domanda e dell’offerta, e allora invece di chiamarlo servizio lo chiameremo Arturo, e invece di dire che è sottoposto alla legge della domanda e dell’offerta (“pare brutto”, direbbero a Napoli), diremo che Arturo è sottoposto alla richiesta e alla disponibilità. Abbiamo salvato la morale: contenti? Ma il risultato sarà sempre che, se nessuno è disposto a dargli il denaro che chiede come paga, il lavoratore non trova lavoro; e il datore di lavoro non trova lavoratori se non è disposto a dargli il minimo che loro chiedono. Lo Stato perché va a mettere il naso in tutto questo, rischiando soltanto di far danni?
Forse lo so. Perché lo Stato, applaudito dalla gente, ha l’irrefrenabile pulsione di impicciarsi di ciò che non lo riguarda, cosa che fa con le migliori intenzioni e con i peggiori risultati.
giannipardo1@gmail.com

L’ASSURDITA’ DEL SALARIO MINIMOultima modifica: 2022-06-16T07:06:06+02:00da gianni.pardo
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Un pensiero su “L’ASSURDITA’ DEL SALARIO MINIMO

  1. Alle sue giuste considerazioni si possono aggiungere altri danni che il salario minimo potrebbe comportare: oggi la maggior parte delle imprese applicano i contratti collettivi nazionali di lavoro, più che altro per non avere problemi, vertenze e rivendicazioni.
    Se però si introduce un salario minimo di legge, con il quale si è già nella legalità appunto, e questo salario minimo è inferiore ai minimi dei contratti collettivi , c’è la possibilità concreta che molte imprese escano dai contratti nazionali e che le nuove imprese non vi aderiscano.
    Risultato finale: abbassamento dei salari medi. Geniale, no?

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