CAPIRE J.M.KEYNES

Premetto che non sono uno studioso della materia, e dunque potrei scrivere qualche inesattezza. E potrebbe anche essere che il mio metodo di comprensione sia erroneo. Lo espongo sinteticamente, per mettervi in guardia.
Cercando di conoscere vari fenomeni – per esempio una teoria, un periodo storico, il pensiero di un autore – mi sono accorto che essi spesso derivano da un’idea semplice e centrale. Se si riesce ad identificare quell’idea, si capiscono anche le altre e si tiene, per così dire, il bandolo della matassa. Infatti per molto tempo, da giovane, mi sono chiesto se avessi capito che cos’era il comunismo. Poi, quando ho coagulato alcune idee di Marx, e dell’attuazione concreta di quel sistema, tutto mi è stato sempre chiaro. Sarà un metodo superficiale per superficiali, ma a me è stato utile. Oggi vi propongo il modo come ho capito Keynes, senza nemmeno assicurarvi che farete un affare leggendo questa pagina.
La prosperità di un’economia deriva dal fatto che gli esseri umani producono beni e servizi e consumano beni e servizi, di solito in quantità crescente. Il ristagno o il rallentamento di un’economia nascono dal fatto che vengono prodotti e consumati pochi beni e servizi. Quale la causa e quale il rimedio?
John Maynard Keynes pensa che il motore dell’economia sia la domanda. Ecco i passaggi, per esempio a proposito di automobili. Alla gente piace avere un’automobile e per questo va a comprarla. Ma per consegnargliela la fabbrica deve produrla; per produrla deve assumere ingegneri, operai, e via dicendo e questi a loro volta, guadagnando, spenderanno e metteranno in moto altre industrie produttrici di beni e servizi. Se invece la gente si astenesse dal richiedere beni, il Paese produrrebbe poco, la gente si impoverirebbe e sarebbe la crisi.
Dunque il rimedio, in caso di crisi economica, è indurre la gente a consumare di più, per far aumentare la domanda. Ma la gente non può farlo se, a causa della crisi, si trova ad avere poco denaro. A questo punto – e temporaneamente – sostiene Keynes, può intervenire lo Stato che, dando lavoro alla gente (per esempio mettendo in cantiere grandi lavori pubblici) o addirittura dandogli “denaro a pioggia”, fa aumentare la domanda. Così, la più forte domanda provocherà una maggiore produzione e in fin dei conti una ripresa dell’economia. Su queste idee si basa la politica della maggior parte dei Paesi sviluppati da quasi un secolo a questa parte.
Questa teoria, a mio parere, è profondamente sbagliata. Innanzi tutto chi spende denaro che non ha guadagnato di solito lo spende male, e questo crea povertà, non ricchezza. Infatti lo Stato il denaro non lo guadagna, lo preleva con la forza del fisco, e per questo è insieme sprecone, ingenuo (lo depredano tutti) e dissennato. Del resto, anche i figli dei ricchi spendono denaro che non hanno guadagnato e per questo spesso hanno un’adolescenza da ricchi e una maturità (essendo morti i genitori) da poveri.
In secondo luogo, se l’economia va male e la gente è preoccupata, può darsi che, ricevendo denaro dello Stato, lo metta da parte invece di spenderlo, “per paura di averne ancor più bisogno in seguito”.
In terzo luogo, chi riceve il sussidio dello Stato beneficia della generosità dello Stato, ma questa generosità, a favore di cittadini improduttivi, è a carico di altri cittadini, produttivi. Se poi gli improduttivi ricevono denaro frutto di inflazione, ricevono denaro stampato a fronte di niente e questo è potere d’acquisto sottratto a chi deteneva denaro, o fruiva di un reddito fisso, o aveva un credito. Insomma a chi quel denaro lo aveva guadagnato. Il sistema ideato da Keynes è immorale.
Infine, e questo andrebbe scritto tutto in maiuscole, Keynes ha previsto questo intervento dello Stato come congiunturale, passeggero, temporaneo. Solo per il tempo di rilanciare l’economia. Ma di fatto il sistema è divenuto strutturale. In primo luogo non sempre il marchingegno ha funzionato e i governi, invece di smetterla, hanno pensato che bisognava aumentare la dose dell’intervento. Inoltre, ed è ancora peggio, la maggior parte dei governi ha interpretato la teoria di Keynes come l’economista non avrebbe mai fatto, cioè come l’autorizzazione a spendere costantemente molto più dell’incassato, in uno stabile regime di deficit spending (spesa a debito). La teoria di Keynes a mio parere è sbagliata, ma poco male se ci si fermasse al primo tentativo. In realtà la politica del deficit spending è divenuta universale e tutti i Paesi del mondo sono indebitati fino agli occhi. Una volta o l’altra ci sarà da piangere.
Ma c’è di più. La teoria di Keynes (della “domanda” come motore dell’economia) è in contrasto con la teoria naturale, che potremmo chiamare “teoria dell’offerta”, correntemente supply side theory, cioè teoria del lato della fornitura. Dell’offerta sul mercato di beni e servizi, appunto.
Cominciamo col chiederci: gli uomini hanno bisogno di stimoli, per spendere? L’osservazione della realtà ci dice che no. Tanto che sono disposti a lavorare pur di potere spendere. Dunque non è la voglia di spendere, che gli manca. È il denaro. Ma che cos’è il denaro? Il denaro è un credito acquisito nei confronti della società, per aver prodotto un bene o un servizio. Credito consacrato nelle banconote ricevute in cambio. E appunto, come ottenerle?
Immaginiamo un barbiere che lavora sette ore al giorno per cinque giorni la settimana. Per guadagnare di più può lavorare otto ore al giorno, oppure lavorare un giorno in più. In questo modo potrà spendere di più, ma precedentemente ha offerto il tantundem (il contraccambio) alla società. Il sistema è in equilibrio, ed anzi l’economia accelera.
Se viceversa avrà da spendere denaro che non ha guadagnato, quel denaro costituisce la richiesta di beni a fronte di niente. Mentre il nostro barbiere chiederà un paio di scarpe nuove perché ha tagliato più barbe, il fruitore dell’ “acceleratore keynesiano” spenderà denaro inesistente, a fronte di beni che non ha prodotto. E questo, economicamente, è un furto.
Ma vediamo anche il problema dal punto di vista dell’industria. Chi ha voglia di spendere e non ha denaro, se ha spirito imprenditoriale, può mettere su una “fabbrichetta”, come dicevano una volta in Veneto, e cominciare a produrre beni a prezzi inferiori alla concorrenza, in modo da farsi largo nel mercato. A questo punto aumenterà la produzione di beni, il mercato sarà calmierato, il nostro imprenditore avrà il denaro per spendere e la gente comprerà i suoi prodotti perché di buona qualità e a buon prezzo. L’operazione è moralissima e produttiva economicamente. Tutto ciò che ha da fare lo Stato, perché ciò avvenga, è non assassinare lo spirito d’intrapresa con un fisco opprimente, con una burocrazia soffocante, con un eccesso di regole e in totale mettendo i bastoni fra le ruote alla libera iniziativa.
Invece come ragionano i keynesiani? Bisogna incrementare la domanda. Creiamo una fabbrica, produciamo qualcosa, assumiamo operai, gli diamo un salario e costoro, avendo guadagnato, si metteranno a spendere, rimettendo in moto l’economia. Lo schema, perfetto in teoria, è in realtà pieno di buchi.
In primo luogo, se quella fabbrica non esiste, è segno che gli imprenditori privati non hanno pensato, aprendola, di poterci guadagnare. Dunque se lo Stato l’apre, probabilmente lo fa con la prospettiva di operare in perdita, il che costituisce una perdita secca per un Paese con un’economia già in difficoltà. In secondo luogo, gli operatori privati non pensavano di poterci guadagnare, pur amministrandola bene (con l’occhio del padrone, per così dire); come potrebbe mai riuscirci lo Stato che, notoriamente, è un pessimo amministratore? E infatti tutte le imprese di Stato sottraggono ricchezza alla comunità. Ecco perché l’intervento dello Stato, come produttore nell’economia, è in ogni caso sbagliato. Se fosse giusto, lo precederebbero i privati, e se è sbagliato impoverisce la comunità invece di rilanciare l’economia.
La storia ha detto la sua, in questo campo, anche se alla sinistra piace raccontarla addomesticata. Il Cile di Allende era socialista, collettivista, ovviamente keynesiano e vagamente comunista. Il popolo era profondamente scontento di come andavano le cose economicamente, ed anzi ogni giorno più scontento, fino al sollevamento dei camionisti (essenziali in un Paese stretto e lunghissimo come quello) e alla caduta del governo. Con Pinochet (conseguenza, non causa della caduta del governo) venne adottata la politica economica suggerita dai seguaci di Milton Friedman (i Chicago Boys), cioè la teoria del supply side, dell’economia che ha come motore l’offerta e non la domanda, e il Cile ripartì per una nuova epoca di prosperità. Ma non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Il fatto è che con le teorie keynesiane i governi comprano consenso a spese del futuro, e aumentano il loro potere; mentre con la teoria del supply side, lo Stato è cortesemente pregato di farsi da parte, e questo diminuisce il potere dei politici.
In sintesi: l’errore dei keynesiani è credere che lo Stato la sappia più lunga dei privati, in materia di economia. In realtà, con Mao (tutto Stato) i cinesi sono morti di fame, con Xi Jinping (produzione in mano ai privati) la Cina è divenuta una superpotenza economia mondiale. Dolente, in economia Marx e Keynes avevano torto.
18 nov 2021

CAPIRE J.M.KEYNESultima modifica: 2021-11-18T10:06:36+01:00da gianni.pardo
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3 pensieri su “CAPIRE J.M.KEYNES

  1. Pinochet conseguenza, non causa della caduta del governo Allende?
    Non proprio, dato che il compianto era ancora al potere quando vi fu il golpe.
    Certamente fu la conseguenza delle politiche scellerate di Allende, che tra l’altro non era neppure rispettoso della Costituzione cilena, da quanto ho letto.
    E’ interessante notare come i fatti storici sono molto diversi dalla narrazione dominante in Europa, così come il giudizio di chi li ha vissuti sulla propria pelle rispetto a quello che si dice da queste parti. In Cile voglia di giocare a fare i socialisti non ce n’è molta, mi sembra.

  2. Pardo, in USA, in certe condizioni, la cura Keynes ha funzionato. Siccome quella “aspirina al gusto di frutta” ha funzionato per quella “febbre” (sì, uso un termine improprio, sono un “sempliciotto” e non me ne curo) e per quel “malato”, una nutritissima schiera di “specialisti teorici”, di guardiani del faro e di modellatori di fischietti si è convinta che andava bene anche per i tumori e la gonorrea, anzi perfino negando queste patologie e affermando che il paziente aveva la medesima “febbre” e niente altro; in pratica, creando una “fede”. Con grande felicità del paziente di turno, che veniva gratificato – direttamente o indirettamente – di una pillola gradevole, ringraziando chi l’aveva inventata e chi gliela aveva somministrata disegnandoli un futuro di miele e profumi. Se non guariva nei tempi promessi (“eh, ci vuole tempo, signora mia…”), si ripeteva o si aumentava la dose. Se poi il paziente muore… colpa dei poteri forti, di Giove e Marte in opposizione, della morìa delle vacche. Quindi, lasciamo perdere Keynes e pensiamo invece agli errori di diagnosi, alle cure “per sentito dire”, ai placebo graditi e quindi alle medicine sbagliate (per supponenza, per cieca fede, per consapevole truffa), e magari rileggiamoci qualcosa di Sergio Ricossa.

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