CONTRA SAVIONEM

Giuseppe Ebreo, detto anche Giuseppe Flavio, è l’unico storico che si è occupato della Palestina ai tempi di Gesù. Del quale forse non ha nemmeno sentito parlare. Certo non ne ha scritto. Ma non è di questo che voglio occuparmi. Mi interessa che accanto alle “Antichità Giudaiche” abbia anche scritto un testo dallo strano titolo: “Contra Apionem”. Chi fosse Apione e perché Giuseppe ce l’avesse con lui, non lo so. E non mi importa. Conta soltanto la conferma che esiste il diritto di scrivere soltanto per andare contro qualcuno. Giuseppe ce l’aveva con Apione, io ce l’ho con Roberto Saviano, del quale so più o meno quanto so di Apione. E allora perché ce l’ho con lui?
Saviano è uno scrittore. Ha scritto “Gomorra”, un libro sulla camorra e ovviamente, armato di forcone, è fieramente impegnato a sinistra. Gli chiedo scusa se una di queste notizie è sbagliata (in particolare ho dei dubbi sul forcone, ci sono armi più efficienti) ma in fondo io non mi occupo tanto di lui, quanto della sua immagine. Come se, invece di avercela con Ottaviano Augusto, me la prendessi con la sua statua.
Saviano, nell’immaginario collettivo, non è uno che racconta storie fantastiche. È uno che ha usato la forma della fictio per denunciare un male sociale ed eventualmente suggerire le soluzioni. Egli ha inoltre evidenziato le colpe di chi quelle soluzioni non ha adottato o di un’intera società che certe cose ha tollerato. Qui – come si vede – cominciamo a scantonare dalla letteratura alla politica, se non addirittura alla predicazione e – chissà – alla profezia. Ed è per questo sono risolutamente contro Savionem.
Non ignoro che si può fare politica, e perfino storia, con un romanzo. Penso a Harriet Beecher Stowe che, con “La Capanna dello zio Tom”, ha notevolmente contribuito alla causa dell’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti. Ma – ecco il punto – mentre sono contento che la signora Beecher Stowe abbia scritto quel romanzo, non per questo l’ho letto e non per questo lo considero affidabile, se dovessi studiare la storia della schiavitù negli Stati Uniti.
Un romanzo non è la sede per parlare di cose serie. Perché le cose serie devono necessariamente prescindere dall’affettività, positiva o negativa che sia. La storia non si scrive per distinguere i buoni dai cattivi, ma per raccontare i fatti, ed eventualmente valutarli in relazione agli scopi dei protagonisti e in relazione alle conseguenze per i vari popoli.
In questo senso il cinema è un grande [cattivo] maestro. È vero che di solito ci presenta una vicenda in cui prevalgono i buoni e sono puniti i cattivi, ma è anche capace di raccontarci la storia di un criminale e rendercelo simpatico. Anche se poi, in omaggio alla morale di Hollywood, il protagonista finisce male.
Non c’è da stupirsene. Anche nella realtà soggettivamente chiunque crede sempre di avere ragione e dunque chiunque può essere reso plausibile da un artista. Basti pensare alla vicenda di Spartaco che fu un tipo poco raccomandabile ma, nella leggenda (in particolare sovietica) è divenuto un eroe della lotta per la libertà contro l’oppressione. Ancora oggi a Mosca c’è una squadra di calcio che si chiama “Spartak”.
Diamo ancora un esempio che potrebbe fare il contropelo a molti. Come è ovvio, è pressoché impossibile dir bene di un certo Stalin. Soprattutto se pensiamo al pugno di ferro col quale tenne sotto il suo potere non soltanto la Russia ma tutti i Paesi riuniti nell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Senza dire che a questo gregge egli aggregò poi, dopo la Seconda Guerra Mondiale, le Repubbliche Democratiche dell’Est Europa, fino all’Elba, in un’insaziabile sete di terra e di dominio. Ebbene, Stalin aveva torto, in tutto questo? Dal punto di vista degli oppressi sì, certamente. Ma dal punto di vista russo?
Il dramma costante e secolare della Russia è l’assenza di frontiere naturali. La conseguenza di questo fatto è stata ed è la tendenza – non soltanto di Stalin, ma anche degli zar, e perfino di Putin, con la Crimea – a spingere quanto più è possibile lontano le frontiere. Magari inglobando tutti quei Paesi da cui potrebbe venire la prossima invasione. L’Ucraina costituisce un pressante problema per Mosca (e ancor più Mosca costituisce un pressante problema per Kiew) perché tra l’Ucraina e la Russia non esistono frontiere naturali. Addirittura, se montagne ha l’Ucraina, le ha ad ovest, cioè dove potrebbe ritirarsi in sicurezza l’aggressore che, partendo dall’Ucraina, attaccasse la Russia.
In altri termini nel suo smodato “imperialismo” Stalin è stato più russo che criminale. Il suo pugno di ferro era forse l’unico modo per tenere unito un impero troppo grande e troppo fragile. E del resto la riprova l’ha data la storia. Non appena in Russia si è affacciata la democrazia, l’impero si è disgregato. Non soltanto Mosca ha perduto tutti i Paesi dell’Est, ma perfino gli Stati Baltici, inglobati prima della Guerra, gli Stati asiatici che finiscono in “Stan”, e l’Ucraina di cui parlavamo. Oggi la Russia confina con l’odio Polacco, slovacco, ungherese e via dicendo. Non certo un grande successo.
Personalmente rimango certo contro Stalin, che considero forse il più grande criminale della storia, e preferisco la problematica Russia odierna all’impero dell’Unione Sovietica: ma riconoscetelo, chiamata alla sbarra, l’ombra di quel tiranno non avrebbe proprio nulla da dire, a propria difesa?
Ecco il punto. Per fare storia non si può presentare la realtà “a colori”. Nel film “Era mio padre” viene presentato un killer professionista che subisce incolpevole il massacro della moglie e di un figlio e che, per cercare la sua vendetta, fa una vera strage. Senza nemmeno risparmiare l’uomo che stimava di più e che gli aveva quasi fatto da padre. E tuttavia, come dice la voce narrante del figlio, “Era mio padre”: e questo semplice fatto sovrasta tutto il resto della vicenda. Potremmo giudicare nostro padre con imparzialità?
Ecco perché non amo Saviano. Non gli concedo per nulla il diritto di salire in cattedra, di dire che cosa è giusto e che cosa è sbagliato, chi ha ragione e chi ha torto, che cosa bisognerebbe fare e che cosa bisognerebbe non fare. Sutor, ne ultra crepidam. Fra l’altro i maestri del “si dovrebbe” non si occupano mai delle spese del loro programma. Le spese sono comunque e sempre gli altri che dovrebbero affrontarle. Loro si riservano soltanto il diritto di reclamare il merito del risultato ottenuto. Sempre che avessero ragione, cosa di cui è lecito dubitare.
Fra l’altro, quanto più è grave il problema, tanto meno semplice ne è la soluzione. Si pensi all’arretratezza del Mezzogiorno d’Italia. Da quanti decenni se ne parla? E chi può dire che il torto sia di Roma e non degli stessi meridionali? Siamo sicuri che il problema sia come aiutarli? Con lo stesso clima, come hanno fatto gli israeliani a creare il Paese più prospero e ordinato del circondario?
Forse non ce l’ho con Saviano. Ce l’ho con chi ama troppo semplificare. Con chi crede di conoscere l’Iliade perché ha visto il film “Troy”. Ce l’ho con gli ignoranti, con le Grete Thunberg e forse perfino Giovanna d’Arco. Con chi non capisce che Ottaviano Augusto non era né un santo, né un diavolo, ma il più grande Uomo di Stato di Roma antica. E dunque largamente al di sopra della morale di Harriet Beecher Stowe e – se lui permette – dello stesso Roberto Saviano.
Gianni Pardo, giannipardo1@gmail.com
17 ottobre 2021

CONTRA SAVIONEMultima modifica: 2021-10-17T15:20:58+02:00da gianni.pardo
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Un pensiero su “CONTRA SAVIONEM

  1. Dai giornali: “Torino, rissa tra pusher nigeriani e residenti di origine cingalese. I cingalesi che vivono in zona hanno deciso di ribellarsi ai nigeriani che da settimane usano il cortile e l’androne della palazzina per spacciare”. I cingalesi, al contrario di noi, non sono disposti a subire. Io pertanto rivolgo loro un invito:
    “Cingalesi, non ci lasciate soli con i nigeriani…”. Il diritto d’autore su una simile frase spetta a Saviano (il quale di diritti d’autore certamente s’intende). Subito dopo i fatti di Rosarno, infatti, il nostro Roberto, in un articolo sul “The New York Times”, esalto’ il coraggio degli africani, perché a suo dire, diversamente dagli italiani, questi avevano osato ribellarsi alla Mafia. Saviano concludeva l’articolo con un’invocazione degna di una sceneggiata alla Mario Merola: “To those African immigrants I say: don’t go — don’t leave us alone with the mafias”. Di qui il mio copia-incolla, ma per i cingalesi. Ebbene, da allora la mafia nigeriana ha ampliato in Italia il suo terreno d’azione, grazie, io credo, anche a quell’accorato appello sul New York Times. Rivolti ai nigeriani, oggi pero’ diciamo: noi abbiamo i nostri cingalesi. Speriamo solo che Saviano non decida di consacrare ai nigeriani un libro, sul modello di quel suo “Gomorra” con cui ha creato un’identità distinta per i “Casalesi”, fino allora sconosciuti. Dopo la pubblicazione di un libro dedicato questa volta ai nigeriani, di fronte agli africani (nigeriani o no, perché è difficile distinguerli) i capitreno e i controllori dei biglietti sui mezzi pubblici, insieme col resto degli abitanti della penisola, se la faranno sotto piu’ volentieri e spesso di quanto non avvenga oggi. Proprio come è successo, ieri, con i Casalesi, ossia gli abitanti di Casal di Principe, che oggi, camorristi o no, fanno paura a tutti.

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