PERCHÉ DA EBREO SAREI QUASI ANTISEMITA

Leggevo un articolo su Chagall(1) in cui, senza farne un merito o un demerito, si sottolinea quanto questo pittore fosse legato alla sua identità di ebreo. Non nel senso religioso del termine, ma nel senso che è nato in un villaggio ebreo della Bielorussia e dell’imprinting di questo piccolo centro non si è mai liberato. Nemmeno nei suoi quadri e nel suo mondo fantastico. Anche Giovanni Verga non si è liberato (come invece ha fatto Pirandello) del suo ambiente siciliano, ma questo piccolo mondo ha voluto rappresentarlo come specchio dell’umanità sconfitta. Lo specchio è fabbricato sul mare blu di Acitrezza e nelle campagne arroventate dal sole, ma riflette una realtà universale.
Mentre ero indotto a digerire questo concetto di “profondamente ebreo”, mi sono accordo che anch’io avrei potuto essere ebreo (sarebbe bastato che lo fosse mia madre) ma mi avrebbe dato parecchio fastidio se qualcuno mi avesse definito “profondamente ebreo”. Non per antipatia per gli ebrei, fra cui ho parecchi amici che stimo: semplicemente perché non riuscirei mai a sentirmi profondamente legato a un mondo solo perché in esso il natale o la pasqua si chiamano in un altro modo. E questo significa che non ho “un’identità forte”.
L’identità forte nasce dall’adesione, conscia o inconscia, ai canoni dell’ambiente in cui si è nati. L’imprinting è in generale molto più forte di quanto non si pensi. Io stesso, da ragazzo, sentendomi un disadattato, scrivevo che mentre i miei coetanei, in tutti i casi, si comportavano “come si sarebbe comportato chiunque altro di loro”, io mi comportavo come sentivo di dovermi comportare. Cioè – proseguivo – loro hanno un forte “io impersonale”, io ho un forte “io personale”, che gli altri percepiscono come diverso e “sbagliato”. E dunque sono rifiutato.
Dico la verità, avrei preferito essere come tutti. La solitudine e l’isolamento non sono una grande consolazione, quando si è ragazzi. Ma quell’imprinting che in me non era stato sufficiente era stato tanto potente, su gli altri, che essi avevano una “identità siciliana”. Poi la Sicilia si è evoluta, ed ho visto che i giovani hanno una “identità italiana”, mentre io, crescendo, ho cercato in tutti i modi di sfuggire anche a questa identità. Dunque non potrei essere “profondamente ebreo” perché non potrei essere profondamente nessuna cosa se non me stesso. Condizione che da ragazzo ho considerato una condanna, ed oggi – forse nei miei sogni – considero un bel castello turrito.
La prima ragione di una forte identità è l’adesione inconscia al modello corrente che si è conosciuto per primo, direbbe Konrad Lorenz. E poi l’adesione conscia quando, crescendo, ci si accorge che, essendo tedeschi, si è avuta la fortuna di nascere con la migliore identità. Perché “noi tedeschi, noi francesi, noi giapponesi, noi americani, noi cinesi, siamo il migliore popolo del mondo”. Ed ecco perché io rifiuterei di essere profondamente francese o profondamente giapponese. Sono nato, oltre che miscredente, apolide.
Purtroppo, c’è un caso in cui l’identità forte è inevitabile e l’avrei subita anch’io: è quando deriva dall’oppressione. Se, vivendo in Germania da immigrato, fossi stato continuamente oggetto di disprezzo in quanto italiano, credo che mi sarei sentito molto italiano. In nome della verità. Perché quel disprezzo sarebbe stato totalmente immeritato. Ecco perché capisco le femministe: perché le donne sono state a lungo oppresse a causa del semplice fatto che erano donne. E dunque inferiori. Mentalità ancora imperante nei Paesi musulmani. Se gli ebrei hanno tendenza ad essere più ebrei di quanto i cristiani non siano cristiani, è per colpa dei cristiani. Se una cugina sposa un ingegnere, ha sposato un ingegnere. Se ha sposato un ingegnere ebreo, ha sposato un ebreo. Spero vivissimamente che questo modo di avere “un’identità forte” svanisca al più presto.
Questo vale per gli omosessuali, e per qualunque altro gruppo umano identificato come diverso. Ad esempio i negri.
Così, risalendo dal filo all’ago (“de fil en aiguille”), arrivo alla conclusione che, in materia di religione, il più tollerante non è il fedele che dice: “Io sono cristiano, ma tui puoi essere quello che vuoi”, ma (perché “naturalmente tollerante”) l’irreligioso che dice: “Io non sono credente, ma tu puoi essere ciò che vuoi”. Infatti chi comincia dicendo: “Io sono cristiano”, con ciò stesso dice: “Io sono in possesso della verità, ma tollero che tu viva nell’errore” mentre il miscredente dice: “Non m’importa ciò in cui credi, purché tu non mi dia fastidio”.
Ma questo atteggiamento è allarmante e il miscredente è un essere losco e pericoloso. Come ero io per i miei coetanei, da adolescente.
Gianni Pardo, giannipardo1@gmail.com
15 luglio 2021-07-15

(1) Andando su https://expressioni.myblog.it/2021/07/15/chagall/, anche molte foto dei quadri di Chagall. Ecco l’articolo.
Chagall
Che il dolore sia l’inevitabile retroterra dell’arte è quasi un luogo comune. “Perché?”, mi disse un giorno un amico, “Non tutti i pittori sono Van Gogh, ci sono i pittori felici”. Non mi convinse del tutto, ma l’argomento era di quelli che si addicono all’amicizia. Gli chiesi un elenco, di questi pittori felici, e lui me lo fornì.
Comunque, tra i pittori felici merita un posto Marc Chagall (1887 – 1985) o Moishe Segal o Mark Zacharovič Šagal, che anche da queste molteplici identità trae occasione di ricchezza e non di smarrimento. Né, tanto meno, di arzigogolate angosce esistenziali. Convivono senza conflitti in lui, questi diversi umori, così come l’asino convive con la luna nei suoi affollati cieli fantastici.
Russo, ebreo, francese. Ebreo per il villaggio in cui è nato e che gli è rimasto nel cuore; francese per adesione culturale ai fermenti del Ventesimo Secolo; russo, soprattutto russo, per la memoria delle favole, per il temperamento appassionato ed esuberante. Una sorta di Čaikovskij. Con un pathos limpido e mite però: un inesauribile creatore di “melodie” pittoriche, in cui a volte il colore esce dai margini dell’immagine rappresentata. E questo, più che per l’adesione a un movimento culturale (il “Tachisme”, da “tache”, macchia), per una sorta di sopraffazione che il colore opera nei margini stessi della sua anima e della sua visione del mondo.
Aderì alla Rivoluzione di Ottobre, ma da artista, senza realmente capirla, e non riuscì mai ad essere sovietico: nulla avevano a che fare gli innamorati verdi e le mucche blu con la causa del popolo, così come i dirigenti del partito la intendevano. La glorificazione di Marx ed Engels non era in linea con le sue visioni.
Conobbe i pogrom (uno il giorno stesso della sua nascita), le due guerre, il comunismo, il nazismo, l’esilio. Ma queste vicende, che sconvolsero la vita del mondo, lo lasciarono indenne: perché lui ci racconta prevalentemente l’amore e l’infanzia, la favola, il gioco, il circo. Il suo è un universo individuale, e i ricordi gli servono solo ad arricchire la “sua” storia; non sono e non vogliono essere, se non in piccola parte, un documento della storia degli uomini. Sono eventualmente un pretesto per raccontare il cuore degli uomini, così come può esserlo la poesia nostalgica di Fellini.
Il villaggio è onnipresente. Nelle sue tele si respira un mondo semplice e privo di inquietudini. Le albe e i tramonti scandiscono il tempo; la stalla è attigua alla “camera da letto”; i ragazzi imparano a mungere le mucche e le chiamano per nome. Gli animali, gli immancabili animali – che l’artista riporta anche nelle magnifiche vetrate istoriate delle Cattedrali europee e della Sinagoga di Gerusalemme – potrebbero non avere sempre quel valore simbolico che alcuni critici vedono in essi, ma esprimere a volte solo una familiarità vestita d’ingenuità: gli occhi sgranati del bambino di fronte a un uccello sconosciuto; l’affetto per l’asino, una sorta di fratello più forte; l’aringa, un pesce grande, importante, perché collegato al mestiere del padre.
Siamo lontani dalla poesia intellettuale e squisita di La Fontaine, di cui pure illustrò le favole. Qui c’è lo spessore, a volte perfino grottesco, delle storie del mitico Giufà siciliano, dove il gallo può essere chiamato scherzosamente e familiarmente “il cantalanotte”. Il mondo descritto è quello delle scarpe grosse e del fieno, degli odori eterni della natura, dei fiori di campo, dei ragazzi che si appartano per fare l’amore e poi si sposano – lei nella povera eleganza del velo bianco – con una cerimonia accompagnata dall’immancabile violinista. Questo è il contadino ebreo russo che descrive il suo mondo, mentre è soltanto ebreo il pittore che ci mostra il violinista sul tetto, simbolo delle difficoltà che il popolo ebraico è chiamato ad affrontare, abituato com’è a dare il meglio di sé anche in condizioni estreme.
Tutti galleggiano nei quadri di Chagall. Ed è un volare irrealistico e sproporzionato. Distanze, prospettiva, dimensioni vengono inventati ex novo, in linea con l’estro visionario dell’artista. Lo spessore degli ambienti, degli animali, dei personaggi, si scioglie in un mondo turbinante e ripetitivo, un’assenza di gravità originata da una fantasia più che visionaria: fantasmagorica. Non è l’inconscio devastante di Bosch, che emerge, né quello delle sedute psicoanalitiche. Le immagini di Chagall non affiorano a tradimento e dolorosamente né sfuggono per caso, come il lapsus di Freud; non esprimono verità seppellite sotto la vita, ma al contrario una vita con verità esplicite e degne di essere mostrate. Il pittore ce le ripropone mille volte con i colori smaglianti e irriducibili di un’evidenza che si impone a tutti, con la disinvoltura quasi infantile di chi non teme smentite, talmente ascolta soltanto la propria fantasia che sovrappone alla realtà fino ad annientarla. Perché quella fantasia è l’unica strada che sa percorrere; è la sua visione del mondo. Soavemente surreale.
E, accanto al villaggio, l’amore. La coppia, gli innamorati, gli amanti, gli sposi soprattutto, declinati in tutte le pose, di giorno e di notte. Belli o brutti, verdi e viola, quasi sempre vestiti. Non c’è sensualità, c’è il sentimento atavico di un rapporto vitale che riguarda tutti o almeno i fortunati che lo hanno vissuto: l’amore è nel mondo, come la terra, come la luna, come il sole, trasformato a volte in una sorta di astro familiare, di fiore pazzo, rosso come un tuorlo, neanche tanto rotondo. Il sole è con gli innamorati, in un mondo che comprende tutti gli esseri del creato. Chagall conosce l’amore. Per questo riesce a raffigurare la passione e l’abbandono, la tenerezza e la fiducia negli abbracci e negli sguardi; negli occhi che si chiudono; nelle mani che accarezzano e proteggono. Non sono gli innamorati a galleggiare, galleggia l’amore.
Non è solo “visione”, tutto questo. C’è anche una sorta di panteismo elementare e benevolo risalente alla religiosità popolare della Cabbalah. C’è il misticismo tipico dell’anima russa. E inoltre un richiamo, forse un po’ sfocato, allo “spirito”, al lato invisibile delle cose, da cui l’artista si sentiva attratto. La sua tendenza alla spiritualità muta la rappresentazione del mondo concreto in un universo pittorico unico: e vive sulle tele una “realtà” senza peso intrisa, oltre che di sogno, di mistero religioso. Apollinaire definì “soprannaturale” la pittura di Chagall.
Perché volare. Credo lo stesso artista abbia detto che l’amore rende capaci di volare e che lui ha dipinto i suoi personaggi “in cielo” perché erano come inquilini senza casa sulla terra. Belle spiegazioni razionali che danno un senso ad una rappresentazione. Ma l’arte è solo rappresentazione?
Si potrebbe dire altrettanto legittimamente che i personaggi galleggiano come nell’immaginario popolare “volano” le anime e gli angeli. O anche, ritornando allo stesso Chagall, che “La pittura è uno stato d’animo”. Ma forse non serve che i pittori parlino d’arte. E paradossalmente neanche gli storici dell’arte dovrebbero tentare di spiegarla. Perché l’arte non risponde ai “perché”.
E allora cos’è l’arte di Chagall? È una magia. Forse uno stato di grazia che concede a pochi privilegiati il mestiere di Dio. E Dio doveva intendersene di colori, a giudicare dai dipinti di questo artista. Più che le sue figure e i suoi temi un po’ ripetitivi, sono i colori che non smettono di galleggiare davanti ai nostri occhi: un caleidoscopio senza fine. Un’ossessione positiva, una sorpresa gioiosa, che lascia una traccia squillante, come può venire da un pittore felice.
Ma non sempre felice: Chagall conobbe la depressione. Dopo la morte di Bella Rosenfeld, sua moglie, ispiratrice e compagna di vita per moltissimi anni, si spegne nella mente dell’artista la voglia di distribuire immagini di cielo notturno, di immensi uccelli blu e di angeli acrobati. La realtà, quella vera e inconciliabile col sogno, lo spezza e lo ammutolisce. Poi, dopo un anno, il suo temperamento appassionato avrà la meglio. E di nuovo riprenderà la sua narrazione: la favola, l’infanzia, l’amore. Su tutto una sorta di divinità pervasiva, priva di rigore e di vendetta. Una realtà consolante e surreale.
Tra le sue opere mi piace ricordare certe immagini, come quella famosissima, (“La passeggiata”), in cui l’innamorato porta a spasso per i cieli di Parigi la sua ragazza, come un aquilone, come un palloncino leggero, come una bandiera viola. Un ideale che sogna un ideale.
Anna Murabito

PERCHÉ DA EBREO SAREI QUASI ANTISEMITAultima modifica: 2021-07-16T09:17:57+02:00da gianni.pardo
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