LA MANO INVISIBILE

Lo statalismo è la tendenza ad affidare allo Stato la massima quantità di compiti per dirigere e regolare l’attività sociale, fino al panstatalismo sovietico delle origini. Questa tendenza nasce dall’idea che lo Stato, essendo impersonale, è sempre onesto e disinteressato. Naturalmente chi pensa questo dimentica che, come si dice, le istituzioni camminano sulle gambe degli uomini. Poi si pensa che lo Stato si occupi dei più deboli e dei più poveri, il che è vero, ma dimenticando che, quando dà uno ad alcuni, prende due ad altri. Così diviene un parassita e un fabbricante di miseria. Ma non c’è niente da fare. La leggenda delle virtù dello Stato è immortale (Hegel lo ha quasi deificato) perché è appassionatamente coltivata da coloro che sperano di trarne profitto. Gli invidiosi, per cominciare. E poi gli incapaci e i molti che pensano di non avere nulla da perdere. E si sbagliano. Perché probabilmente hanno una libertà di cui non sempre i cittadini hanno fruito. Come non ne fruivano certo i russi negli Anni Trenta. Anzi, dal 1917 al 1990 e oltre.
Ma fra gli aspetti più curiosi di questa leggenda della positività dello Stato ve n’è uno veramente sorprendente e diffuso: si reputa che, in materia di economia, lo Stato ne capisca più dei privati; e proprio per questo debba sempre dirigerla e correggerla. Ad esempio, se una categoria di imprese si trova in difficoltà (per esempio gli allevatori di cavalli quando si è diffusa l’automobile) per gli statalisti è normale che, a spese degli altri contribuenti, lo Stato gli offra un sostegno finanziario, o tassi di più l’automobile, per lasciare uno spazio alle carrozze.
Si noti che, dal punto di vista degli statalisti, questi provvedimenti sono “giusti e umani”. Non c’è ragione che gli allevatori, i fabbricanti di carrozze, i coltivatori di foraggio e via dicendo si trovino improvvisamente a perdere la loro attività. “Vanno aiutati”, “Sono dei padri di famiglia”. Ciò di cui non si accorgono, gli statalisti, è che se un prodotto è condannato dal mercato, non c’è Santo in cielo che possa salvarlo. Dunque tutti quei provvedimenti “umani e giusti” non fanno che ritardare, a spese dei contribuenti, un fatto inevitabile. Distruggendo ricchezza.
Lo stesso vale se, nella produzione di una merce, uno Stato estero riesce ad operare più economicamente di noi. Se noi, per permettere di sopravvivere alle imprese che non reggono la concorrenza, mettiamo un dazio sulla merce straniera, costringiamo i nostri cittadini a pagare cento ciò che potrebbero avere a settanta. E a non spendere trenta in altri prodotti. Insomma, pressoché ogni volta che lo Stato mette le mani nell’economia, la sua azione si traduce in una distruzione di ricchezza.
L’errore di questa teoria è credere che, se non intervenisse lo Stato, le cose andrebbero male. E questo è un errore. Il padre dell’economia classica, Adam Smith, ha infatti capito che il mercato si aggiusta da sé. I fabbricanti di carrozze costruiranno automobili. Gli allevatori di cavalli alleveranno bestiame da macello. E via dicendo. Quello che nelle società stataliste si fa con ritardo, e dopo avere inutilmente resistito, nello Stato liberale si fa subito e a costi minori. L’Alitalia finirà al macero, ma dal momento che il nostro Paese è statalista, finirà al macero dopo che ai contribuenti sarà costata circa quattordici miliardi di euro. Applausi.
Smith ha sostenuto che nella società c’è una “mano invisibile” che corregge gli errori di mercato. Faccio un esempio teorico. A causa di una congiuntura negativa, imperversa la disoccupazione e i lavoratori, pur di non morire di fame, offrono le loro prestazioni a un prezzo bassissimo. Per dire, lavorano una giornata per venti euro. Ovviamente sono sfruttati, la situazione è immorale, tutto ciò che si vuole. Ma per il momento non ne teniamo conto.
Se il costo del lavoro è pressoché irrisorio, imprese che avevano dovuto chiudere, o che non aprivano, rientrano in gioco. Presto ci saranno meno disoccupati e, per assumerli, bisognerà pagarli meglio, strapparli a coloro che li avevano assunti prima. Così arriva il momento in cui si torna all’equilibrio.
Se la macchina automatica è lasciata libera di operare, i lavoratori sono pagati il giusto. E quando dico “il giusto” non intendo, come dice assurdamente la Costituzione Italiana, il necessario “per sostenere la propria famiglia”, ma una somma quale risulta dal libero gioco della domanda e dell’offerta. Se un calciatore è pagato milioni e un professore di filosofia è pagato una miseria, è perché la gente si diverte di più col calcio che con la filosofia.
Questa teoria della “mano invisibile” è vista come il fumo negli occhi da tutti gli uomini di sinistra. Infatti essa non rende popolari agli occhi degli elettori, e soprattutto toglie potere ai politici. Se l’economia si regola da sé, che cosa regola il ministro dell’economia? E come può favorire gli amici (anche per categorie) e sfavorire i nemici (anche per categorie)?
Si può tuttavia dare una dimostrazione “obliquamente” economica della “mano invisibile” . Ponetevi questa domanda: “Chi distribuisce la popolazione nel territorio?” In uno Stato di diritto la risposta non può essere che: “Nessuno”. Ognuno va a vivere dove gli pare. Dove trova un lavoro, dove le case costano meno, dove abita uno zio, dove il clima è gradevole, semplicemente nel posto dove è nato. Ché se poi, dove vive, qualcuno si trova male, si trasferisce. In Italia, negli Anni Cinquanta, c’era lavoro al Nord e non c’era lavoro al Sud, sicché non so quanti calabresi e siciliani sono andati a vivere in Piemonte, e ormai i loro nipoti sono piemontesi doc.
Ora immaginiamo che ci sia un Ufficio Collocazione della Popolazione nel Territorio. Un ufficio cui fare domanda per trasferirsi da una casa all’altra, da una città all’altra: si riesce ad immaginare la quantità di guai che riuscirebbe a combinare un simile ufficio, sia pure nella più perfetta buona fede? La mano invisibile invece opera liberamente ed efficacemente, e nessuno ha da lamentarsi.
Ebbene, è lo stesso in economia. Il miglior giudice di ciò che conviene all’individuo è l’individuo stesso. Una società libera penalizza gli inferiori, ma produce tanta ricchezza da provvedere anche a loro: si pensi alla Svizzera. Mentre una società collettivista, come la Russia sovietica o la Cina maoista, conosce non solo l’appetito, ma la morte per fame.
Gianni Pardo, giannipardo1@myblog.it
2 giugno 2021

LA MANO INVISIBILEultima modifica: 2021-06-04T07:41:30+02:00da gianni.pardo
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7 pensieri su “LA MANO INVISIBILE

  1. Gianni Pardo è un anarchico. Un anarchico di destra. Un anarchico conservatore alla Prezzolini. O alla Simenon.
    Simenon si definiva anarchico « ma in un senso che mi è personale, vale a dire che io rivendico la superiorità, o piuttosto la dignità dell’individuo sulla superiorità o la dignità del paese e dei gruppi quali che siano sempre pronti a servirsi dell’argomento delle armi. » « Voglio essere un anarchico libero, vale a dire un anarchico individuale. »

  2. Personalmente preferirei uno stato (sistema) dove fosse impossibile che il 58% delle tasse sul reddito venga pagato dal 12% dei contribuenti. L’accettare la ridistribuzione evidentemente comprende anche l’accettare di essere (fatto) fesso. Accetto suggerimenti sulla terza via.

  3. Professore, nei regimi a libertà di parola, il dibattito tra pensieri differenti non è un incidente di percorso nè una gentile concessione ma è la regola. D’altra parte, se io La reputassi un cretino, non perderei tempo certo a leggerLa quasi giornalmente da quasi vent’anni.
    Il ritratto che io faccio della Svizzera è pura realtà.
    La Svizzera ha materie prime? No. Ha filiere produttive da produttore a consumatore? Nemmeno. E in fin dei conti questa è una condizione comune a gran parte dei paesi europei, sono pochi quei paesi che possono vantarsi di essere totalmente autosufficienti. Solo che si massimizza in Svizzera e in generale nei paradisi fiscali.
    Da dove trae la Svizzera le risorse che le consentono di applicare il modello da Lei auspicato? Semplicemente da un meccanismo parassitario che consentirebbe a Lei di creare un’azienda, di mettere la sede legale in Svizzera e tuttavia di continuare a vendere nei mercati di mezzo mondo. Cosa che toglie risorse all’Italia per darle ad un paese come la Svizzera che, parassitarismo a parte, non fa nulla per meritarle.
    Se tutti i paesi si mettessero d’accordo e vietassero alle aziende di avere sede legale nei paradisi fiscali, la Svizzera sarebbe un paese del terzo mondo che vivrebbe unicamente dei prodotti caseari e della cioccolata. Che, per inciso, potrebbe vendere solo ai suoi pochi cittadini, se non altro perchè la mozzarella di bufala e la ricotta siciliana sono molto migliori. E se non altro perchè se sei un paese povero, il cacao per fare la cioccolata, lo paghi molto di più.
    E questa non è ritrattistica professò. E’ matematica.
    Io non sono un comunista nè tantomeno un proletario. Sono un imprenditore. Dipendesse da me, si immagini se non mi farebbe piacere pagare poche tasse, poter pagare poco i miei lavoratori, non pagare l’IMU. Solo che, veda, appartengo a quella ristrettissima tipologia di imprenditori e di liberali ma aggiungerei di italiani, che ha capito che i propri interessi possono prosperare solo in un sistema dove la povertà è ridotta al minimo possibile. E quindi mi sono rassegnato all’idea che un po’ dei miei guadagni vadano redistribuiti.
    Sono contento? No. Ma la considero una tassa necessaria da pagare per evitare che ritorni il Partito Comunista che, sfruttando il malcontento popolare, decida che quelli come me sono dei ladri e che il profitto sia un furto.
    Tra i due mali, quale preferisce? Quello di un sistema con un moderato socialismo oppure il socialismo reale?
    Perchè queste sono le alternative in campo caro professore.
    Il paradiso dei capitalisti esiste, è una baggianata alla pari di quello del proletariato.

  4. Lasciamo da parte l’ironia, non piace neanche a me.
    Non sono d’accordo né con la Sua precedente risposta, né con la seguente. Il ritratto che Lei fa della Svizzera mi pare totalmente falso, ma potrei avere torto. Non sono uno specialista della Confederazione, né uno specialista della sua economia. So soltanto che mi piacerebbe vedere l’Italia amministrata come è amministrata la Svizzera.
    Quanto al di8scorso “etico” in economia, è fuor di luogo come un discorso estetico in campo giuridico. Ma, anche qui, Lei è libero di pensarla come vuole.
    Non è la prima volta che ci accorgiamo di pensarala diversamente, vero?
    Le auguro cent’anni di salute, per continuare a battibeccare.

  5. Professore, dobbiamo confrontarci a colpi di sarcasmi? Guardi che so fare il sarcastico anche io, se necessario. Solo che non mi piace la modalità conflittuale. E’ possibile confrontarsi sui contenuti?
    L’esempio da Lei citato è totalmente fuori luogo. La Svizzera, che è un paesucolo totalmente privo di un’economia propria, vive e prospera unicamente grazie al dumping fiscale e cioè io azienda pago il 30% delle tasse in un paese e allora metto la sede legale in un paese dove pago il 5%, continuando però ad operare nel mercato dove invece dovrei stare.
    E grazie alla salsiccia, così sono bravi tutti. Ma se questo è stato finora possibile, è solo grazie al fatto che non sia nata una conventio ad excludendum che escluda le aziende svizzere dalla competizione globale. Che poi sia difficile che ciò accada, per varie ragioni che illustrare qui sarebbe complesso, è un altro paio di maniche. Ma il giorno in cui ciò avvenisse, la Svizzera fallirebbe in meno di ventiquattro ore.
    E questo discorso si estende a qualsiasi paradiso fiscale e in generale a qualsiasi paese che si sviluppi attraverso forme più o meno legali di dumping.

  6. Infatti la Svizzera, essendo molto più liberale di noi, è povera e non assicura l’ordine pubblico. Per fortuna, in Svizzera non ci sono leoni allo stato libero.

  7. Guardi io sono probabilmente persino più antistatalista di Lei. Ma il mio antistatalismo non mi impedisce di vedere né perchè uno Stato nasce né perché diviene importante e alla fine così pervasivo.
    Lo stato non è che l’elevazione di un bisogno insito in tutti gli animali sociali e che, a seconda della specie, si declina in base alle circostanze: la protezione reciproca. I lupi, i delfini, le pecore, le galline, si radunano in branchi perchè lo trovano molto più sicuro che rimanere da soli.
    Se gli uomini fossero in grado di badare a se stessi senza aver bisogno degli altri, non ci sarebbero gli stati. Ma purtroppo non tutti ne sono capaci. Di conseguenza, tutte quelle persone che si ritrovano escluse dalla competizione, se poi si radunano e prendono le armi, distruggono chi invece quella competizione, individualmente, la vincerebbe: un cowboy può avere l’arma più potente del West, il mitra più potente ma soccomberà sempre di fronte ad una gang di pistoleri.
    Lo stato in quanto tale vive se riesce a garantire il compromesso tra le esigenze espansionistiche dei forti e la tutela dei più deboli. A vantaggio non solo dei più deboli ma soprattutto dei più forti. Se in un territorio, i più forti si appropriano di tutte le risorse e lasciano i più deboli senza nulla, i più deboli se si coalizzano diventano molto più forti dei forti. E il risultato è che i forti soccombono.
    Non sempre il progresso porta ricchezza e benessere. Se uno stato favorisce l’automatizzazione dei processi economici, lasciando a casa una marea di disoccupati, facendo arricchire pochissimi e impoverire tantissimi, è a rischio l’intera tenuta sociale che è poi alla base del concetto di stato.
    Lei, come moltissimi liberisti, sembra non considerare che lo stato è quella cosa che consente ad un ultraottantenne come lei di poter oggi scrivere qui e di correre molti meno rischi di essere ucciso da un trentenne che, mentre casomai Lei va alla posta a ritirare la sua pensione, decidesse di appropriarsene.
    Dello stato e di una qualsivoglia forma di protezione sociale ci sarà sempre bisogno fin quando l’uomo sarà un animale sociale.
    Se poi Lei vuole tornare nella savana, faccia pure. Solo che dubito che i post con cui Lei ci intrattiene da quasi vent’anni, Lei potrebbe scriverli mentre viene rincorso da un leone.

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