LA STORIA NEL CANESTRO

LA STORIA NEL CANESTRO

Si legge sui giornali che a Dallas un allenatore, Micah Grimes, ha condotto la sua squadra femminile di basket a vincere contro la squadra avversaria col punteggio di cento a zero e poi è stato licenziato perché ha rifiutato di scusarsi con le perdenti.

I greci erano del parere che chi vinceva era moralmente migliore del perdente, diversamente gli dei non l’avrebbero favorito; nella mentalità del Bushido, codice morale dei guerrieri giapponesi, il nemico che si arrendeva meritava il disprezzo perché non era morto combattendo, ma nei tempi recenti le cose sono cambiate. Oggi bisogna chiedere perdono se si vince umiliando l’avversario. L’occidentale si vergogna della propria superiorità passata e presente. Delle crociate e della conquista dell’America latina vede solo i lati negativi. Ad ogni piè sospinto si precipita a sottoscrivere le accuse più inverosimili in materia di colonialismo. Arriva a farne una teoria: la civiltà romana o greca da un lato, la civiltà bantù o kikuyu dall’altro, sono solo “diverse”. Non si deve dire che Aristotele non ha il suo corrispondente in lingua swahili: qualche stregone potrebbe sentirsi discriminato.

Ogni eccesso è un errore e soprattutto non bisogna trasformare la magnanimità in un dovere. Se un generale vince una battaglia può generosamente cercare scuse al collega battuto: può parlare di diversità di armamenti, di fattori imprevisti o addirittura di fortuna, ma quell’eventuale atteggiamento è solo una forma di eleganza: in realtà, come ha scritto Tucidide, “nessun vincitore crede mai alla fortuna”. E comunque quelle parole non danno affatto al vinto il diritto di prenderle sul serio. Chi ha perso, se vuole avere la stessa eleganza del vincitore, deve solo dire che il campo di battaglia ha solo dimostrato chi era il migliore e che lui ha meritato la sua sorte. Se invece pretende le scuse del più forte ha un comportamento demenziale, contrario persino alla più elementare etologia.

Nel caso della squadra di basket, l’allenatore che si è rifiutato di scusarsi è una persona normale. Avrebbe dovuto farlo se le sue ragazze avessero violato qualche regola del gioco: ma così non è stato e dunque non c’era nessuna ragione di battersi il petto. Doveva piuttosto chiedere scusa l’allenatore della squadra perdente: non avrebbe dovuto accettato di giocare l’incontro con una squadra di valore tanto diverso. Chi lancia una sfida di cui non è all’altezza non merita solo la sconfitta, merita l’irrisione.

A voler concedere qualcosa alle persone di cuore, si può ammettere che Mr.Grimes avrebbe potuto compiere un gesto di pietà nei confronti delle perdenti. Avrebbe potuto per esempio – come ipotizzato – dare la colpa all’allenatore: ma che gli si imponga di scusarsi, e addirittura che lo si punisca per non averlo fatto, è troppo. È il sintomo di un mondo che non crede più a se stesso.

Gli occidentali non si attribuiscono più il diritto di vincere e si annega in un’ipocrita melassa. Oggi la retorica vuole che tutti siamo uguali: forti e deboli, giovani e vecchi, vincenti e perdenti, belli e brutti. Gli stessi minorati non sono più tali e forse i ciechi, “diversamente abili”, hanno il radar. Non sarebbe più semplice chiamarli col loro nome e cercare di non discriminarli? Né bisogna dimenticare un ultimo imperativo, cui tiene molto la sinistra: devono essere uguali anche i ricchi e i poveri, nell’unico modo possibile: rendendo tutti poveri.

In realtà le diseguaglianze sono come la legge di gravità: non si lasciano impressionare dalla political correctness. Ed è un peccato: perché diversamente  i vecchi potrebbero corteggiare le ventenni.

L’etologia è implacabile. Il pesce grosso mangerà sempre il pesce piccolo, il forte continuerà a battere il debole e l’intelligente continuerà a ridere del cretino.

Gianni Pardo, giannipardo@libero.it, piuttosto perdente che vincente.

31 gennaio 2009

LA STORIA NEL CANESTROultima modifica: 2009-01-31T13:46:04+01:00da Giannipardo
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