KUNDERA. IL DELATORE

KUNDERA, IL DELATORE

Pierluigi Battista, sul “Corriere” del 24.11.’08, riferisce della recente scoperta che Milan Kundera, il grande scrittore che tanto ha avuto da patire dal comunismo, nel 1951 è stato a sua volta un delatore politico a danno di tale Miroslav Dvoracek. Costui, per causa sua, ha scontato quattordici anni di galera.

La notizia ha fatto scandalo ed ha suscitato un dibattito, soprattutto sull’opportunità di far conoscere questa orrenda verità. Cosa stupefacente. In realtà, l’unica discussione comprensibile sarebbe stata quella sulla fondatezza della notizia. E dal momento che proprio questa discussione è mancata, perché la notizia è fondata al di là di ogni dubbio, è di ben altro che bisogna parlare. Fra l’altro l’interrogativo che pone Battista non mi sembra fondato. Egli scrive: “Cosa deve fare un ricercatore se, indagando negli archivi, si imbatte in un nome celeberrimo, in una gloria letteraria, in un grande intellettuale di cui viene unanimemente onorata l’integrità etica e il rigore culturale?” Di questa di integrità etica è sempre stato lecito dubitare. Infatti Milan Kundera è un grande scrittore. È un grande intellettuale e un grande testimone dell’oppressione comunista. Ma non si può dire che sia un grand’uomo. Questa amara verità è rivelata innanzi tutto dalle sue opere. Utilizzerò ciò che ho scritto il 29 ottobre del 2002 non per libidine di autocitazione, ma per provare che tutto questo era chiaro anche anni fa. Prima della rivelazione di questi giorni.

“Il suo mondo – scrivevo nell’articolo su Maupassant, Verga e Kundera, in calce per chi volesse leggerlo – non è popolato da personaggi in prevalenza negativi, come in Maupassant, e non esiste neppure un Fato che si accanisca contro il protagonista. È quest’ultimo che, per debolezza, si mette in guai sempre più grandi. Perché è un debole che non sa prendere in mano il proprio destino. Il romanzo dunque non implica un giudizio sulla società: si limita ad essere la storia di questo protagonista e il resto del mondo è visto da lui. Di fatto ruota intorno a lui. In Kundera un protagonista positivo è impensabile. O almeno, i suoi protagonisti sono positivi nell’anima e nelle intenzioni, ma falliti nella vita reale. I suoi romanzi sono probabilmente più spiritualmente autobiografici di quelli di Verga.

Kundera sembra proiettare l’esperienza della frustrazione. Il suo mondo è disperato, il suo racconto descrive una parabola in senso balistico: un uomo vola verso la vita ma a poco a poco le cose si mettono in maniera tale che il volo declina verso il basso, fino alla catastrofe. Catastrofe costituita quanto meno dalla sua rassegnazione.

Sembra essere l’autore d’elezione dei disadattati, di coloro che preferiscono pensare che il mondo, e non loro, sia sbagliato.

Kundera rischia d’essere l’autore ideale di coloro che hanno bisogno d’un alibi per la propria debolezza”.

Debolezza e frustrazione, ecco il leit motiv delle sue opere. Ecco la sua trasparente autobiografia. Non c’è dunque da stupirsi se è giunto all’abiezione di denunciare qualcuno a quella stessa polizia politica che sembra essere l’incarnazione del male in “La Plaisanterie”. C’è chi ha la forza di fare il male, c’è chi ha la debolezza di fare il male, e non è detto che questo secondo valga più del primo.

Probabilmente, una parte del successo di Kundera è dovuta al fatto che gli intellettuali, stanchi di glorificare la virtù (in senso latino),  stanchi anche della violenza del Ventesimo Secolo, sono rimasti incantati da questi infiniti epigoni di Amleto. Siamo tutti troppo pensosi per essere energici, troppo capaci di visione dialettica del mondo per prendere risolutamente posizione, troppo sensibili, infine, per essere forti. Ma si dimentica che Amleto alla fine ha la forza di fare una strage. Si dimentica che la debolezza non giustifica nessuno, piuttosto ci squalifica. E non c’è tanto da condannare Kundera, che i suoi difetti ce li aveva proiettivamente descritti in centinaia di pagine quanto da capire che un vero uomo sa pensare, sa sentire, sa amare ma se necessario sa anche combattere. E se non sa farlo, non è un vero uomo. È uno che denuncia un altro uomo alla polizia politica e lo manda in galera per quattordici anni.

Gianni Pardo, giannipardo@libero.it Chi vuol essere sicuro che il suo commento mi giunga, oltre ad inserirlo nel blog, me lo spedisca al superiore indirizzo e-mail.

26 novembre 2008


 

MAUPASSANT, VERGA, KUNDERA E LA REALTÀ

Maupassant, Verga e Kundera sono tre grandi autori pessimisti.

Maupassant[1] sembra pensare che la realtà sia fondamentalmente negativa. E sia tanto naturalmente, tanto innocentemente negativa, che la prevalenza dei personaggi “cattivi” sui personaggi “buoni” deriva da un loro migliore adattamento alla realtà com’è. In un mondo senza Dio, i grandi principi sono pure facciate dietro cui si nascondono i veri intenti degli uomini immorali, quasi sempre vincitori. Coloro che hanno un sincero atteggiamento morale sono viceversa gli ingenui, coloro che non hanno capito come stanno le cose: e dunque i perdenti.

In Maupassant non c’è crudeltà. Non c’è nemmeno cinismo: c’è disincanto. S’incontrano tante persone miserabili e interessate, vili e avide, prevaricatrici e bugiarde, che alla fine le persone stimabili divengono eccezioni insignificanti, quantités négligeables. Non è un piacere osservare come va il mondo, ma volendolo rappresentare onestamente, non si può che mostrarlo com’è. La società come egli la descrive somiglia ai documentari sui leoni: un mondo in cui il più forte deruba gli altri predatori o divora vivo il più debole e alla fine – lungi dall’avere scrupoli – dorme beato all’ombra, interrompendosi solo per stirarsi e sbadigliare.

Ovviamente, anche per il Francese sono necessari dei punti d’osservazione, e cioè dei personaggi che possono essere positivi (Boule de Suif) o negativi (Bel Ami). Ma ciò non cambia l’essenza del racconto, cioè l’affresco sconsolato della società com’è. Se la protagonista, la prostituta Boule de Suif, è positiva, ecco che incontra borghesi negativi; mentre l’arrampicatore sociale senza scrupoli, Bel Ami, protagonista negativo, incontra e sfrutta anche persone per bene. Poco importa: in ambedue i casi prevalgono i cattivi e il mondo rappresentato – il vero protagonista – è lo stesso.

Verga[1] è anch’egli un grande pessimista, ma il suo è un mondo meno naturalistico di quello di Maupassant. Mentre nel Francese la prevalenza di certi personaggi si spiega con la loro mancanza di scrupoli, e si potrebbe dire in forza della loro maggiore intelligenza, in Verga si ha quasi l’intervento di una divinità malevola. I suoi protagonisti non sono né più ingenui né più deboli degli altri: è il Fato, che li vince. La barca dei Malavoglia è carica di sfortuna e non per caso, ma per un’ironia feroce, si chiama “La Provvidenza”. È la tempesta, deus ex machina cieco e impersonale, che rovina i Malavoglia. Così come è la sfortuna che perseguita Gesualdo, fino a derubarlo costantemente del sapore della vittoria ampiamente meritata. Gesualdo è nato per vincere, è talmente abile, talmente positivo, che da Mastro diviene Don; e se non trionfa è perché l’autore lo perseguita. Mentre da un lato sorvola sui suoi successi, narra e sottolinea per esteso le sue sconfitte: in queste condizioni anche la storia di Giulio Cesare diverrebbe quella d’un vinto. Persino quando è costretto a dar conto delle sconfitte dei suoi nemici, verga lo fa distrattamente, come non contassero. La sorella di Gesualdo scende in guerra contro di lui ma alla fine non ne ricava nulla e l’autore scrive sobriamente che in quella battaglia lei s’era rovinata. S’era rovinata. Fosse capitato al protagonista, non ci sarebbe stato risparmiato nulla del suo dispiacere, delle sue umiliazioni, del suo fallimento.

Maupassant è obiettivo, Verga bara. E tuttavia lo fa con una tale arte, che alla fine col cuore gli crediamo. Per criticarlo bisogna essere usciti dai suoi libri da parecchio tempo, tanto da poterci riflettere a mente fredda.

Poi ci sono altre differenze, chiarissime: Maupassant è un superiore maestro di stile, Verga scrive male; e poco importa che ciò avvenga più o meno volontariamente. Maupassant è freddo, Verga è un grande artista. Maupassant fotografa, Verga dipinge.

Il caso di Kundera[1] è ancora diverso. Il suo mondo non è popolato da personaggi in prevalenza negativi, come in Maupassant, e non esiste neppure un Fato che si accanisca contro il protagonista. È quest’ultimo che, per debolezza, si mette in guai sempre più grandi. Perché è un debole che non sa prendere in mano il proprio destino. Il romanzo dunque non implica un giudizio sulla società: si limita ad essere la storia di questo protagonista e il resto del mondo è visto da lui. Di fatto ruota intorno a lui.

In Kundera un protagonista positivo è impensabile. O almeno, i suoi protagonisti sono positivi nell’anima e nelle intenzioni, ma falliti nella vita reale. I suoi romanzi sono probabilmente più spiritualmente autobiografici di quelli di Verga. Il Catanese infatti il suo bravo successo sociale a Roma l’ha avuto, lo stesso Maupassant è noto, oltre che come romanziere, come sportivo e come grande amatore superdotato. Kundera invece sembra proiettare l’esperienza della frustrazione. Il suo mondo è disperato, il suo racconto descrive una parabola in senso balistico: un uomo vola verso la vita ma a poco a poco le cose si mettono in maniera tale che il volo declina verso il basso, fino alla catastrofe. Catastrofe costituita quanto meno dalla sua rassegnazione. Il protagonista della “Plaisanterie” (“Lo Scherzo”) avrebbe mille ragioni per cercare di vendicarsi del suo rivale ma quando ne ha l’opportunità sente che è troppo tardi. Non ne ha più voglia. Forse non ne ha più il diritto. E forse ha capito che comunque – a causa di quell’uomo o d’un altro uomo, poco importa – egli era condannato alla sconfitta.

Kundera sembra dire che i migliori sono più sensibili, più delicati, più indifesi degli altri, e per questo sono destinati alla sconfitta. “Il pensiero ci rende tutti vili”, diceva Amleto. La nobiltà d’animo ci predestina alla morte e all’umiliazione, pensava Vigny. Ma mentre Amleto alla fine prende in mano il proprio destino, mentre Vigny di questa sconfitta si fa un’aureola e di questo martirio agita la palma, Kundera sembra solo spiegare come mai egli non abbia saputo difendersi, nella vita. Come mai egli non abbia avuto ciò che meritava.

Questo tuttavia fa sì che la sua opera non abbia né il vasto respiro sociale e umano di Maupassant, né la poesia di Verga. Sembra essere l’autore d’elezione dei disadattati, di coloro che preferiscono pensare che il mondo, e non loro, sia sbagliato.

Kundera rischia d’essere l’autore ideale di coloro che hanno bisogno d’un alibi per la propria debolezza.

Gianni Pardo.

 

KUNDERA. IL DELATOREultima modifica: 2008-11-26T13:01:21+01:00da Giannipardo
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