IL PENTIMENTO

IL PENTIMENTO

 

Il pentimento è onusto di lauri. Nei secoli se n’è detto un gran bene e la Chiesa Cattolica , con il Sacramento della Confessione, l’ha addirittura istituzionalizzato. Ma questo atteggiamento merita tutte le lodi che ha ricevuto? E, soprattutto, è razionale?

 

Secondo il dizionario Sabatini-Colletti il pentimento è: “Dolore, rammarico, rimorso per aver agito in contrasto con il codice morale o giuridico, oppure per aver omesso di compiere un atto doveroso”; è però anche “Cambiamento di opinione, ripensamento”. Lo Zingarelli e il Devoto-Oli, con parole pressoché identiche, esprimono gli stessi due concetti. Dunque il pentimento è un sentimento (“dolore, rammarico”) e un giudizio (“cambiamento d’opinione”). Se mentre mangiavo cioccolato me la godevo e ora che sto male mi pento d’averne mangiato troppo, non sono pentito del piacere avuto ma solo del fatto che ne ho ricavato una conseguenza negativa. Infatti, se potessi mangiarne un altro mezzo chilo senza sentirmi male, lo mangerei. Dunque non sono pentito dell’azione ma solo delle sue conseguenze negative. Nello stesso modo se un uomo uccide il proprio nemico, e viene condannato, e si pente, bisogna chiedersi: se non l’avessero scoperto, si sarebbe pentito?

 

Né le cose cambiano se una persona si pente nel senso morale del termine. Cioè al di fuori di ogni conseguenza negativa. In questo caso il male imprevisto è il rimorso e, ancora una volta, si è dispiaciuti della conseguenza negativa, non del piacere avuto sul momento nel compiere quell’azione. Se il soggetto avesse previsto che il rimorso gli avrebbe dato un dolore maggiore del piacere che ricavava dall’azione negativa, forse non l’avrebbe compiuta. E se al contrario avesse giustamente previsto che non ne avrebbe ricavato nessun rimorso, c’è da credere che se ne sarebbe mai astenuto?

 

In quanto sentimento, il pentimento dimostra ben poco. Se l’azione di cui ci si pente è stata compiuta in base al desiderio di compierla, l’inversione del sentimento (il pentimento) non è più morale del sentimento precedente. Salva l’ipotesi dell’utilitarismo, un’azione è morale quando è compiuta per dovere, non per il piacere che dà. Forse, dissociandosi dal sentimento e dall’opinione precedenti, chi si pente vuole soltanto accreditarsi come migliore di ciò che è.

 

Tuttavia, secondo i dizionari, il pentimento può anche essere un cambiamento d’opinione. Ad esempio: “Ho reputato opportuno fare un altro mestiere ed ora mi rendo conto che stavo meglio prima”. È un cambiamento d’opinione, questo? Se ne può dubitare. Infatti se quest’uomo avesse saputo prima come si vive facendo l’altro mestiere, si sarebbe tenuto il vecchio. Non si tratta dunque d’un diverso giudizio ma dell’acquisizione di nuovi dati, di cui prima non si disponeva. E se i motivi per fare diversamente non erano conosciuti al momento di decidere, le parole classiche del pentimento, “avrei dovuto fare diversamente”, che senso hanno?

 

C’è tuttavia un caso, più crepuscolare e più interessante. È quello di chi dice: “Sul momento avevo il presentimento che stavo sbagliando – qualcuno me l’aveva detto e risultava dalle esperienze precedenti – e tuttavia ho voluto sbagliare. È stata colpa mia”. Questo è il caso in cui un sentimento prevale sulla “tentazione della ragionevolezza”. Si comporta così la ragazza innamorata che vuole vivere la propria storia d’amore mentre tutti le dicono che l’uomo in cui s’è imbattuta è un perfetto farabutto. Si comporta così il comunista che si ostina a chiudere gli occhi sui disastri provocati dal comunismo: né ci si deve stupire di questo atteggiamento, se da sempre la Chiesa dice che si deve voler credere. Si comporta così colui che corre un rischio tecnico: eccesso di velocità, assunzione di droga, fuori pista in montagna, commissione d’un reato. Queste persone in sostanza sanno di sbagliare. A questo punto, che senso ha pentirsi? L’alea implica la possibilità del risultato negativo, e questo risultato negativo, se si verifica, lo si è preventivamente accettato. Chi compra un biglietto della lotteria non può lamentarsi se il suo numero non è estratto. Pentirsi d’avere sprecato i soldi corrisponderebbe a dire: la sorte avrebbe dovuto dirmelo prima che il mio biglietto non sarebbe stato estratto, non l’avrei comprato. Ma è un ragionamento da persona sana di mente, questo? Analogamente, la donna che si mette con un uomo che tutti giudicano male come può stupirsi se poi è infelice? Come può pentirsi, quando la verità si rivela per quello che era chiaramente sin da principio?

 

Cionondimeno, questo genere di errore a volte ha una sua grandezza. Nel dramma di Musset, Lorenzaccio, per avvicinare il tiranno in modo da poterlo uccidere, macchia irrimediabilmente la propria reputazione. Tutti lo considerano degno amico dell’oppressore. Tanto che infine, quando ha l’occasione d’agire, sa che nessuno gliene renderà merito, se uccide il tiranno. Ma decide di farlo perché, come dice lui stesso, questa azione “è l’unica cosa pulita che sia rimasta nella mia vita”. Nello stesso modo qualche comunista, ingiustamente accusato, ha confessato crimini non commessi per non squalificare l’ideologia in cui credeva. E chissà quanti sacerdoti rimangono fedeli al giuramento quando ormai hanno perso la fede, sia perché dicendo la verità si metterebbero nei guai, sia per amore di un’ideologia in cui hanno così a lungo e così appassionatamente creduto.

 

Nel mantenere la fedeltà alla posizione presa, anche se se ne avverte l’insostenibilità, ci può essere autentica grandezza. Certo non grande come nell’abiura pubblica e clamorosa, tuttavia: perché un pentimento sincero e sofferto può spingere ai livelli alti della tragedia. Edipo ne è l’esempio greco. Ma sono casi rari: troppo spesso col pentimento si vuole comprare uno sconto di pena o addirittura l’amnistia.

 

Il pentimento può infine essere discusso sul piano filosofico, dovetutto dipende dal vecchio problema del libero arbitrio dinanzi al quale perfino Kant si arrese.  Secondo la soluzione che se ne dà, se si è liberi si è sempre colpevoli, se non si è liberi non si è mai colpevoli (e non c’è di che pentirsi). L’antinomia kantiana può infatti condurre a due posizioni: “chiunque ha sbagliato è colpevole e deve solo battersi il petto”, oppure “chiunque ha sbagliato, in quelle condizioni, non poteva che sbagliare”.

 

In concreto, la magnanimità impone a chi ha sbagliato di battersi il petto, senza cercare troppe scuse, e a chi non ha sbagliato di tendergli la mano, dicendo: “Forse, al tuo posto, avrei fatto come te. Perdonati”.

 

Gianni Pardo, 27 febbraio 2005 

 

 

IL PENTIMENTOultima modifica: 2008-10-06T10:21:03+02:00da Giannipardo
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