TERRORISTI IN TELEVISIONE

 

Se domani Giordano Bruno scrivesse un saggio sulla libertà di pensiero e poi lo commentasse da Bruno Vespa; se Cristoforo Colombo tornasse per spiegarci come mai fosse così sicuro delle sue teorie (sbagliate) da mettere a rischio l’esistenza sua e dei suoi uomini, e se infine venissero a parlarci tutti coloro che per un ideale hanno messo in gioco la vita, saremmo molto interessati. I martiri sono sempre i testimoni più seri e credibili. Ma nella lista non potremmo inserire i membri delle Brigate Rosse. Coloro che hanno insanguinato l’Italia negli Anni di Piombo avevano convinzioni rivoluzionare che per loro valevano la vita: ma la vita altrui. E questo fa tutta la differenza.

 

Tanto è nobile Durand de la Penne , pronto a morire per la sua Patria, quanto è ignobile il comunista che ammazza a tradimento un galantuomo inerme. Ecco perché è assurdo che qualcuno abbia voglia di starli ad ascoltare. Essi sono qualificati a parlare di un solo argomento: l’abiezione del loro crimine e l’ampiezza del loro pentimento. Un pentimento  che non dovrebbe mai avere fine e non gli otterrebbe lo stesso il perdono.

 

Sono passati decenni, si dice: ma ognuno è ciò che ne ha fatto il suo passato. Anche se la sua scoperta risale a decenni prima, il genio rimane genio, così come il criminale rimane marchiato come tale. Se, trent’anni dopo, Mengele avesse detto: “Mi dispiace di avere usato dei bambini come cavie, facendoli ammalare, soffrire e morire”, qualcuno gli avrebbe perdonato? Queste considerazioni sono evidenti. E se non lo sono, si rinuncia a dimostrarne la fondatezza. L’attenzione si sposta dunque su un secondo problema: come mai le televisioni – e dunque l’opinione pubblica – si interessano a ciò che possono dirci i vari Scalzone, Sofri, Faranda, Sandalo, e tutti gli altri di cui non val nemmeno la pena di ricordare il nome?

 

Il dato fondamentale e discriminante è che questi delinquenti  hanno commesso i loro crimini in nome della Rivoluzione Comunista. Per i devoti di questa religione, anche se hanno esagerato, andavano nella direzione giusta. Per loro fu creata l’espressione “compagni che sbagliano”, quasi avessero soltanto scritto scuola con la “q”. I comunisti e i compagni di strada pensavano: hanno violato il codice penale, ma Bertolt Brecht non ha forse scritto che “rapinare una banca è un crimine meno grave che fondarla”? Forse che le rivoluzioni non trionfano colla violenza? E la storia può interessarsi del sangue di poche persone, soprattutto quando questo sangue non è né il mio né quello di uno della mia famiglia?

 

Il fiancheggiamento intellettuale delle Brigate Rosse è stato uno dei tanti aspetti di quel fanatismo ideologico-religioso che ha spinto milioni di persone a guardare con simpatia all’oppressione maoista o al genocidio cambogiano. Si può essere dispiaciuti per Vittorio Bachelet o per Marco Biagi, dicevano in cuor loro, ma in fondo, se la loro morte servisse a far trionfare il nostro ideale, sarebbe una cosa positiva per l’Italia. Una positività che, per i liberali, somiglia a quella dell’HIV.

 

La seconda spiegazione, per questo rispetto tributato ad ex-assassini, è ancor più miserabile. Questi terroristi, con le loro gesta infami, sono diventati famosi e basta questo, nell’era della televisione, perché siano degni di essere visti, ascoltati, commentati. Il pubblico è curioso tanto di Christian Barnard, che inaugura l’era dei trapianti di cuore, quanto lo è di Lutring, “il solista del mitra”, o della principessa Diana.

 

La televisione livella tutti coloro che si affacciano dal piccolo schermo. I programmi si susseguono: al mattino si vede quello che vende i tappeti, alle otto di sera si vede il Papa, alle nove Totti che calcia in rete e alle undici la mamma di Cogne. La gente finisce col mettere tutti quei personaggi del teleschermo sullo stesso piano, quasi appartenessero alla stessa compagnia di giro. La vera differenza non è tra loro, è tra noi che la televisione la guardiamo e loro che in televisione appaiono. E se sono lì perché hanno ucciso, dopo tutto, che male c’è? Anche quello è un modo per farsi conoscere.

 

Siamo in democrazia. La televisione può invitare chi vuole, la gente può ascoltare chi vuole. E chi ha ancora la capacità di distinguere ed indignarsi ha una sola difesa: un telecomando con le pile cariche.

 

Gianni Pardo, www.pardo.ilcannocchiale.it

 

31 maggio 2008

 

 

TERRORISTI IN TELEVISIONEultima modifica: 2008-06-06T18:30:37+02:00da Giannipardo
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